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Bailamme: appunti di un percorso

Luigi Giorgi

 

«Un pensatore contemporaneo ha detto: “Trovare la direzione in cui si sta muovendo una cultura non è tanto difficile, né accompagnarsi a essa strepitando è poi quella gran cosa che pensano certi cervelluzzi in giro. Riconoscere, invece, il reale cammino, i sobbalzi all’indietro, le contraddizioni, le tensioni della vita i contrappesi che occorrono, le forze avverse che tornano a impegnarla quando è fiaccata dall’usura delle proprie, i suoi antagonismi senza i quali il dramma della vita non procede oltre, vedere tutto questo, non solo, ma sentire tutto questo come cosa nostra e viva in noi con le sue contraddizioni: è questo che rende uomo chi è uomo intero nel suo tempo”»

Mann, Considerazioni di un impolitico

Bailamme è stata una rivista per tempi complessi (come sono quelli che ci troviamo a vivere).

Di non ampia diffusione, ha cercato di mantenere una propria autonoma fisionomia, pur tra difficoltà di vario tipo.

Figlia di una riflessione politico-spirituale che affonda le radici alla fine degli anni ’80. Si è snodata lungo il decennio dei ’90 fino all’inizio del nuovo secolo, fermandosi, praticamente, alle soglie del nuovo millennio per l’esaurirsi di una fase, avrebbe scritto, con ogni probabilità Pino Trotta. Cuore e motore dell’esperienza, troppo presto scomparso.

Figlia dei suoi tempi, come scrisse Bidussa a Trotta stesso nel dibattitto redazionale che ne anticipò le fine (tranne l’ultimo numero che uscì come “Quaderni di Bailamme”): «se dovessi limitarmi a considerare il lato umano – esistenziale si sarebbe detto un tempo – di un’esperienza direi come “andiamo avanti”. Ma io ritengo che quella possibilità si sia data dentro uno scenario, fosse il risultato di un lessico politico e di una tensione intellettuale e che presumesse resistenza di agenzie politiche e soprattutto cultural-politiche che ne definivano i contorni. Insomma si era “Bailamme” dentro e rispetto a qualcosa».[1]

Bailamme era figlia dei suoi tempi, delle emozioni e delle riflessioni che aveva elaborato attraversandoli. Ma non per questo ne era succube. Era, altresì, sempre alla ricerca di un rimedio che riuscisse a ovviare all’esaurirsi, e alle difficoltà nel ridefinirsi, delle culture politiche che avevano caratterizzato la scena, non soltanto politica, del Paese (cattolicesimo democratico e marxismo, su tutte) e delle sue forme politiche: Democrazia cristiana e Partito comunista.

Ha cercato su queste strade di pensare alternative e praticare esperienze. Di immaginare percorsi e figure. Recuperare Sturzo e interrogare Dossetti, fissando la preziosa, e tragica, vicenda di Moro. Cercando don Giuseppe De Luca e quella pietà popolare, quella fede dal basso, quella capacità di spiegare le cose grandi agli umili che rappresentava un po’ il nocciolo della riflessione di Edoardo Benvenuto e di Romana Guarnieri. E cercando altresì la combinazione fra capacità della politica di gestire lo stato d’eccezione e la storia. Invitando a pensare la politica, in senso generale, anche, se non soprattutto, quando questa in qualche modo si “frantuma” nella decisione minuta, nel quadro, più generale, della difficoltà, e della capacità, della democrazia di costruire rappresentanza e di esprimere decisione. Cioè quando il progetto si misura con il reale. Quando mette le mani nella concretezza dell’agire. E nel momento in cui non teme la contingenza.

«La politica del giorno per giorno è la grande politica. Il quotidiano schiaccia su di sé la qualità della politica solo quando ad agire è l’uomo politico mediocre. Cioè quasi sempre. – scriveva Mario Tronti – È vero quindi che di norma quello che si vede è la dialettica tra piccole azioni e cieco agire quotidiano prigioniero del qui e ora. È vero che si tende a caricare ogni singolo momento di significati epocali. È vero che la cosa più facile, e dunque più frequente, è perdere il filo della storia mentre si fa politica. Ma quando, dalla situazione contingente emerge il bisogno della grande azione, quando dalla necessità insorge la decisione, allora si ha la vera politica, quella per cui vale la pena di esserci, per cui è giusto prepararsi, per cui è un dovere fari trovare, al momento, pronti a fare. Non è vero il contrario: possedere un progetto, prepararlo, coltivarlo, serbarlo nella coscienza, e non ritenere degno il fatto di misurarlo con ciò che accade. La pretesa della verità politica, posseduta e incompresa, è il peccato originale di ogni tentativo rivoluzionario».[2]

Ha perseguito concretezza e riflessione. Erudizione e pratica. Scenari e capacità di essere all’interno dei processi. Soprattutto quando questi si facevano più difficili e duri da comprendere. Occorreva muoversi per cercare nuovi approdi, possibilmente non pacificati ma agonistici con se stessi, con gli altri e con il mondo. E anche se non si fosse giunti a nulla, il solo muoversi avrebbe rappresentato il senso di un’esperienza. La ragione di una riflessione. Costruire pozzi, lasciare una traccia, battere una pista. Consapevoli che forse non ci sarebbe stato nessun Abramo ad attendere, nell’ora più calda del giorno, alle Querce di Mamre.

E in questo movimento cercare contaminazioni fra culture, con storie dimenticate, con vicende liminari che andavano recuperate anche nella sconfitta. Perché i nuovi tempi che si annunciavano, quando già non si vivevano, non potevano accontentarsi del già noto, ma dovevano sperimentare il “non ancora” sia come semplice idea che come testimonianza. Riflettere approfonditamente su ciò che era stato, sui suoi drammi, sulla crisi come opportunità, ma andare anche oltre. Dove?
Comunque, andare, partire, col rischio, se così si può considerare, di non arrivare da nessuna parte.

«I miti fondatori si stanno trasformando in problemi, le certezze scontate in itinerari di ricerca. È proprio in questi frangenti, dove si aprono faglie epocali – scriveva Pino Trotta – nella storia di una nazione, che emergono in tutta la loro importanza le storie “possibili”, quelle mai state, le occasioni perdute, le possibilità appena evocate e subito sconfitte dal corso di avvenimenti che ricomponevano diversamente le loro contraddizioni».[3]

Era il quadro generale che interessava la redazione di Bailamme. Lo spettro ampio. La capacità e necessità di migliorarsi, nel metodo e nel merito. Miglioramenti prima personali e dopo collettivi. Il gruppo di Bailamme bruciava le navi alle proprie spalle, non tagliava il nodo gordiano, ma cercava di scioglierlo con la consapevolezza che questo avrebbe avuto un costo personale e collettivo. Che forse avrebbe condotto all’insuccesso. Si doveva essere preparati a questo, ma lo si è davvero? Erano gli assilli che la redazione si poneva e ipotizzava in generale.

Lo sforzo non era utopico, ma reale. Calato nella concretezza di una riflessione a volte così asciutta e netta da aprire più questioni di quelle che toccava. Non rinunciando però alla speranza, una sorta di spes contra spem. In cui guardare dentro la notte significava individuare i primi bagliori dell’alba.

Si doveva essere disposti ad essere spremuti come limoni, come avrebbe ricordato Dossetti incontrando il gruppo. Partire, dunque, muoversi. Essere agonistici fra culture. In modo che il cozzo, la sfida e il confronto non fossero mai a somma zero.
Spiritualità e politica gli aspetti fondamentali.
Cercare di ricostruire tornando alla fonte. Alla stultitia crucis, su cui ragionava Benvenuto: «Nella croce si disvela il volto nuovo di Dio».[4]

Ragionare sul primato della Grazia, dell’annuncio, della profezia non come veggenza, ma come capacità di discernimento. In critica ad ogni deriva e tentazione identitaria. Ritornare alla croce, quel legno sofferente. Vivere la Parola, sine glossa. Ecco la ricerca ab imis di qualcosa di incomunicabile, di irrappresentabile. Anche in questo caso fondamentale era restare “provvisori”. Perché uomini con le proprie debolezze e i propri errori. Occorreva consegnarsi all’annuncio. Già il lieto annuncio ai poveri era questo, sembrava suggerire Benvenuto. Era sufficiente a se stesso a gli altri. Perché nel momento in cui è fatto, esso è esplicativo, chiaro, impegnativo. È concreto nel suo essere, e rinascere, con la resurrezione ed il volto di Cristo: Imago Dei.

Scriveva Benvenuto: «L’elemento storico della fede in Cristo non sta soltanto nella convinta confessione della storicità del suo evento, ma risiede ancora nel proclamare la ricapitolazione in lui dell’intera storia».[5]

In ciò si ricapitola, quindi, la storia. Non se ne è risucchiati. E questo rappresentava uno degli asset fondamentali del gruppo. Non essere succubi della storia, in questa eterna lotta fra Giacobbe e l’angelo.

La storia andava affrontata, nella “gola del leone”, parafrasando la Bibbia e un famoso testo di Sergio Quinzio. Nella gola del leone bisogna starci, con tutte le difficoltà. Solo in questo modo si può capire. Perché il nulla non si apre al vuoto. Ma è un nulla “pieno”, non un nihil che annienta:

«il nulla dell’uomo è divino: la caducità dell’esistenza, il dolore che si abbatte sulla vita individuale, la morte in cui tutto sembra perdere senso, sono in verità “luogo teologico” per eccellenza, dove misteriosamente si manifesta il disegno di quel Dio che ha scelto ciò che è nulla, perché nulla sia estraneo».[6]

Ha ricordato Giovanni Bianchi, fra i protagonisti di quella stagione:

«Non a caso il frutto collettivo che nacque – la rivista trimestrale Bailamme, che già nel titolo, riprendendo quello di una rubrica che don Giuseppe teneva sull’ Osservatore Romano ai tempi di papa Giovanni XXIII – era indizio di una fatica confusa, che aspirava con tutte le energie ad uscire dalla confusione del tempo. Sottotitolo della rivista: “Spiritualità e Politica”: dove la congiunzione “e” era incaricata più di una cesura che di un ponte. Insomma, la nostra convivialità teneva insieme quel che il rigore dell’indagine aveva l’obbligo esplicito di non mischiare».[7]

Si muoveva a volte come un blocco, a volte come un puzzle che cerca sempre pezzi mancanti per costruire il quadro. Era rivista sul limes individuato dalla e, vocale vissuta più come cesura che come congiunzione.

Incontrò, dunque, Dossetti. E non poteva essere altrimenti. E questo evento chiudeva quasi una fase. La esauriva perché la sintetizzava e perché la vivificava, icasticamente e concretamente, nelle parole che Dossetti utilizzò incontrando la redazione della Rivista.

Da quell’incontro nacquero i libri di Trotta, importanti e densi. La riflessione pensosa che ne fece nell’introduzione Mario Tronti. E si consolidava, trovando ulteriore spinta, la passione di Giovanni Bianchi.

Fede e politica le coordinate. Storia e uomo, come i punti cardinali su cui dirigere. E interrogare nella loro complessità. Secondo la vita di fede secondo lo studio, e la pratica, della politica. Una storia che andava ricostruita (anche la Storia della Chiesa e della salvezza) secondo percorsi prospettici. Non come semplice sforzo di erudizione. Che inquadrasse l’uomo, soprattutto quando mostrava le proprie debolezze.

Persona che andava collocata e colta nel suo percorso, nel suo farsi e strutturarsi. Dentro questi due estremi occorreva disporre un rinnovamento culturale e spirituale. Delle culture politiche. Specialmente delle sue forme quando si concretizzano nel partito. Che la redazione di Bailamme, soprattutto nel periodo iniziale, sembrava ritenere ancora in grado di vivificare la città, la metropoli (un richiamo forse a Mounier) come si legge nell’intestazione dei Circoli Dossetti. E cioè la complessità relazionale, valoriale, sociale che i moderni agglomerati urbani sembrano conservare nei loro perimetri, non più chiusi da muri.

In quanto si avvertiva che il mutamento antropologico avesse modificato i riferimenti generali, anche di fede, con una Chiesa che era tentata dalla risposta identitaria.

La struttura narrativa della rivista si conformava attorno ad un percorso. Non facile, Né semplice. Ma comunque dentro una logica: proporre, tentare di comprendere. Indagare un nuovo lessico. Riportare le parole al loro significato. In modo da poter dire, senza essere fraintesi. Proporre un dizionario, senza voler essere pedagogici. Perché avrebbe rappresentato un passaggio forzato e non libero. La Redazione voleva misurare il limite, dunque. Si aveva consapevolezza di una insufficienza fondamentale, di fronte al cambiamento di fase che era politico e antropologico, di costruzioni culturali e politiche generali. Che avevano in se stesse non abbastanza filo per tessere, ancora, la tela, perché la pratica gliela disfaceva la notte. Soprattutto perché ognuno tesseva la propria, senza incrociarla con l’altra. E perché la notte della sentinella citata da Dossetti era ancora lunga.

Ma solo nel limite si poteva vedere quanto lungo e spesso, fosse il filo. E ciò avrebbe interrogato gli altri non meno che se stessi. E questo interroga noi. Non meno che la società nella complessità con la quale ci si presenta oggi.

E questo breve scritto vuole essere anch’esso l’inizio di un viaggio, fornire degli spunti di riflessione di una esperienza complessa, del valore del geistige Arbeit. Ha scritto nel suo ultimo lavoro Massimo Cacciari, che fece parte, per un tratto, della vicenda della rivista che: «una qualche autonomia del Politico, se mai si darà, potrà fondarsi nell’epoca del capitalismo globale soltanto sulla potenza auto-liberantesi del lavoro intellettuale, cioè come rappresentazione e ordine che ha in questa potenza sia la sua causa motrice che la sua causa finale»[8]

Mutatis mutandis una delle tappe che Bailamme voleva segnare sulla topografia del cammino. Una, non l’unica, di una storia ancora da scrivere.

[1] Il dibattito redazionale, Bailamme, n. 28/5 – Nuova serie, Gennaio-Dicembre 2002, p. 282.

[2] M. Tronti, Politica in stato d’eccezione, in “Bailamme”, n. 18/19, 1996, p. 40.

[3] G. Trotta, Per una introduzione, in Giuseppe Dossetti, a cura di G. Trotta, Cens. Melzo 1997, p. 5.

[4] E. Benvenuto, Teodicea, in Bailamme, n. 7 1990, ora in E. Benvenuto, Fede e ragione. Scritti per “Bailamme”, Marietti 1820, Genova 1999, p. 225.

[5] E. Benvenuto, Natura e storia, in Bailamme, n. 5-6 1989, ora in E. Benvenuto, Fede e ragione. Scritti per “Bailamme”, cit., p. 156.

[6] E. Benvenuto, Imago Dei, in Bailamme, n. 23 1998, in E. Benvenuto, Fede e ragione, cit., p. 335.

[7] Il ricordo di Giovanni Bianchi si trova nel libro che raccoglieva gli interventi fatti in ricordo di Pino Trotta e Bepi Tomai in Bepi Tomai Pino Trotta. Un ricordo, Milano dicembre 2004, p. 10.

[8] M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano 2020, pp. 92-93.