di Andrea Russo
Quello che cercherò di fare nelle prossime pagine è accendere una piccola luce che illumini quello che a me pare il cono d’ombra della nozione di xeniteia. Ciò che qui è in questione non è la xeniteia per così dire “genuina” dell’ethos monacale, che Mario Tronti e Marcello Tarì hanno messo in rilievo nel testo inaugurale di questa rubrica; quanto piuttosto la xeniteia come esercizio morale di squalificazione e negazione del mondo e della terra, che è tipica della sensibilità gnostica.
«Estraneo» è una parola nuova nel linguaggio dell’umanità tardo-antica. Compare per la prima volta nella letteratura mandea, per poi risuonare nella cerchia delle sette gnostiche che cominciarono improvvisamente a fiorire sulla scia dell’espansione del cristianesimo. Hans Jonas sostiene che, all’inizio dell’era cristiana, la parola xenos è ormai un concetto fondamentale che esprime una qualità dell’essere della vita – «Vita» che per sua natura è «straniera» a questo mondo – e che lo gnosticismo, grazie a questo suo principio originario e all’uso della concettualizzazione greca, è in grado di manifestarsi pienamente in forma teologica, cosmologica e antropologica. È a causa di questa evidente superiorità teoretica che lo gnosticismo è riuscito ad adattare il cristianesimo alla sua mentalità e ai suoi schemi, trasformandolo così in una componente essenziale della sua metafisica dualistica e anticosmisca[i].
Le comunità cristiane delle origini hanno condiviso molti aspetti del sentimento gnostico della vita. Non siamo tanto lontani dal vero nell’affermare che, nei primi tre secoli del nostro evo, gnosticismo e cristianesimo sono stati pressoché indistinguibili, al punto che si può parlare sia di gnostici che si ritenevano cristiani, sia di cristiani che erano profondamente gnostici. La stessa elaborazione del canone cristiano può essere d’altronde compresa come una presa di distanza e una risposta ai vari canoni gnostici che pullulavano nel mondo mediterraneo orientale. Appena si approfondisce il tema del rapporto tra gnosi e chiesa cristiana comunque balza subito agli occhi che la gnosi è sempre rimasta nel corso dei secoli una tentazione e una seduzione per il mondo cristiano. A riprova di ciò basta dare uno sguardo al secondo capitolo della esortazione apostolica Gaudete et exsultate dell’aprile 2018, intitolato “Due nemici della santità”, completamente dedicato alle odierne derive neo-gnostiche e neo-pelagiane.
La gnōsis designa una conoscenza esoterica capace di offrire la salvezza a colui che vi ha accesso, e per l’iniziato rappresenta il sapere tanto della sua origine, quanto della sua destinazione ultima, nonché ciò che rivela i segreti e i misteri del mondo superiore. Secondo un simile sapere, di carattere salvifico, iniziatico e fortemente simbolico, la “gnosi” comprende anche un vasto insieme di speculazioni ebraico-cristiane contenute nella Bibbia. Il movimento gnostico promette dunque, attraverso la rivelazione di una conoscenza sovrannaturale, la liberazione dell’anima e la vittoria sulla potenza cosmica malvagia. Infine, da un punto di vista tecnico-terminologico, va rimarcato che la redenzione gnostica risiede in una sorta di xeniteia da intendersi come atto noetico di astrazione. Se il male risiede nella commistione dell’anima con il corpo, della luce con la materia, la salvezza sarà data dalla separazione dell’una dall’altra. Salvarsi è astrarsi da una realtà malvagia e cogente, per ritrovare l’unità con l’originario Dio della luce assolutamente trascendente rispetto al creato.
Credere che ciò che salva sia la conoscenza piuttosto che la fede e il dono della grazia divina, è ciò che ha portato il cristianesimo occidentale al rifiuto della gnosi. Nei sistemi gnostici la conoscenza non è soltanto un mezzo per raggiungere la salvezza, ma la forma della salvezza stessa. Si crede in una salvezza che coincide con una conoscenza dei Misteri Divini rivelata a pochi. Come ogni esoterismo, lo gnosticismo guarda all’umanità in modo oligarchico e sprezzante. Per esso, c’è infatti una parte dell’umanità – la classe degli ilici – che, essendo schiava del limite e della materia, è per natura irredimibile. È per attaccare l’elitarismo gnostico che Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi, esalta gli ilici, che altro non sono che i poveri: «Considerate la vostra chiamata, o fratelli: non sono molti tra voi i sapienti secondo la carne, non molti i potenti, non molti i nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 26-28). E poco oltre, sempre nella stessa lettera, ribadisce con chiarezza che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che si possono accumulare: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità non sono nulla» (1 Cor 13, 1-2).
Paolo, in molti passi delle sue lettere, fa largo uso della concettualità gnostica, poiché come gli gnostici va contro il nomos imperiale. Tuttavia, invece di andare nella direzione gnostica della pura negazione nichilistica della legge del mondo esistente, «Paolo risponde in modo del tutto diverso «(…) con una trasvalutazione dei valori: non il nomos, ma chi è stato crocifisso dal nomos, è l’Imperatore. Ciò è davvero immane, e al confronto, tutti i piccoli rivoluzionari appaiono insignificanti! Questa trasvalutazione rovescia la teologia ebraica-romana-ellenistica dell’élite (…). Certo, anche Paolo è universale, ma solo passando per il discrimine del crocifisso, e ciò significa: trasvalutazione di tutti i valori di questo mondo. (…) Non siamo – come vogliono gli gnostici – ciascuno in sé perfetto, ma nella nostra indigenza siamo insieme nel corpo di Cristo. Ecco la critica di Paolo alla gnosi, alla tendenza gnostica che già allora era pienamente sviluppata»[ii]. Luca Bagetto, riprendendo queste pagine di Taubes, scrive che Paolo fa «una critica agli arconti – cioè del potere chiuso e soffocante del malvagio ordinamento del mondo – che spiazza la koiné gnostica dell’ellenismo, la quale preparerà allora la sua reazione nella forma dello gnosticismo cristiano. Perché la spiazza? Perché un Messia che muore crocifisso come un malfattore, indicando verso i non-sapienti e i non-perfetti, è un’infamia insopportabile per il perfettismo gnostico. (…) Il Messia non conduce via di qui verso la regione della perfezione, che stava all’inizio e a cui si ritorna (…) Il Messia annunciato da Paolo (…) non è immagine di perfezione»[iii]. Gesù è esattamente l’opposto dello gnostico: non appare mai come un asceta freddo e superbo separato dal mondo o nemico delle cose buone della vita, ed è distante da tutte quelle filosofie che disprezzano il corpo, la materia e la realtà di questo mondo.
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La potenza inaugurale del Vangelo – il Messia che viene «per fare nuove tutte le cose» (cfr. Ap 21, 5) – rivela che il Regno è già presente tra di noi, qui e ora, e non, come affermano gli gnostici, nei lontanissimi palazzi di luce del Dio sconosciuto al di là degli eoni. Frammenti di regno si possono sperimentare nel proprio tempo, solo se si è in grado di rivoluzionare il proprio modo di vivere, il che significa: estraniarsi dalle cose vane e nocive del mondo, per tendere al giusto uso comune dei beni di questo mondo. Lo gnostico, invece, con la mente ingessata nella sua enciclopedia di astrazioni vuole solo tirarsi fuori dal mondo.
Se per i discepoli di Gesù vien detto che non appartengono al mondo, ma sono tuttavia nel mondo; per i seguaci dello gnosticismo tale postulato significa tutt’altra cosa: tra uomo e mondo vige una netta discontinuità ontologica che si esprime nei termini di una separazione assoluta tra uomo e mondo. Per comprendere appieno questa differenza è forse utile richiamare l’idea di resurrezione. Nel cristianesimo, come è noto, l’idea di salvezza implica una resurrezione del corpo, cioè di questa esistenza. Una redenzione che però riguarda anche l’universo, come sottolinea la nota immagine paolina della creazione che geme in attesa del suo completo compimento. Un compimento che comunque sta davanti a noi e che non significa, come per gli gnostici, un ritorno alla mitica unità originaria, ma che rimanda a qualcosa di completamente nuovo. Qualcosa che riguarda l’uomo e la terra molto da vicino. D’altra parte Cristo è risorto in questo mondo visibile: ciò significa che la salvezza avverrà in questo mondo visibile. In tal senso, scrive il teologo tedesco Jürgen Moltmann: «La speranza cristiana non porta l’uomo dalla terra al cielo ma al regno di Dio, quello che noi attendiamo proprio su questa terra (…). Il regno di Dio è in relazione diretta con la terra, vive insieme alla terra, e gli uomini se lo possono attendere soltanto su questa terra, dove è piantata la croce di Cristo e dove dovremo anche attenderci la redenzione dal male. Non altrove»[iv]. La speranza cristiana prevede la redenzione di questo mondo, di questo universo visibile. La Gerusalemme celeste scende dal cielo sulla terra: quindi il compimento avverrà qui. In un certo senso il mondo “vero” è questo e non il regno dell’aldilà del Dio sconosciuto degli gnostici. Insomma, se lo gnosticismo prevede un’esoterica salvezza spirituale esclusivamente per l’uomo, la resurrezione cristiana implica una redenzione oltre che per l’uomo anche per il creato.
Non è molto difficile intuire che ci troviamo dinnanzi a due forme divergenti di xeniteia. Dal momento che, in questa rubrica, la variante cristiana della xeniteia è stata scandagliata in profondità, provo a dire qualcosa sull’altra variante. In primo luogo, evidenziando che, per lo gnosticismo, il termine «estraneo» è un attributo teologico e non una tecnica ascetica di estraneamento. Questo aspetto della dottrina è stato definito nel modo migliore da Hans Jonas. Ecco ciò che scrive: «L’unità sublime del cosmo e di Dio è spezzata, i due vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sarà mai completamente colmato: Dio e il mondo, Dio e la natura, spirito e natura, fanno divorzio, estranei l’uno all’altro, persino contrari (…) L’aspetto teologico sostiene che il divino non ha parte in ciò che riguarda l’universo fisico: che il vero Dio, strettamente transmondano, non è rivelato né indicato dal mondo, ed è perciò l’Estraneo, Lo Sconosciuto, il totalmente Altro (…) È da notare però che la negatività del concetto “cosmo” non consiste soltanto nell’assenza di valori divini nell’universo: la sua combinazione con termini quali “tenebra”, “morte”, “ignoranza” e “male” mostra che possiede anche una sua propria controqualità. Ossia (…) una potenza separatistica che si pone fuori di Dio (…). Così la tenebra del mondo denota non soltanto il suo essere estraneo a Dio e la mancanza della sua luce, ma anche il suo essere una “forza alienante” da Dio (…) Come il mondo è ciò che aliena da Dio, così Dio è ciò che aliena e libera dal mondo. Dio in quanto negazione del mondo ha una funzione nichilistica rispetto ad ogni attaccamento e valore intramondano. Dio è qualcosa di estraneo, estraniante e antitetico al mondo. Dio è il nulla del mondo»[v].
Nel momento in cui il Creatore del cielo e della terra viene identificato con il demiurgo, ossia come potenza di rango inferiore, cieca e malvagia, e lo si pone in assoluta antitesi al Dio estraneo vero e buono – deus alienus è un’espressione coniata da Marcione – si apre la possibilità del nichilismo. Qui abbiamo a che fare con una negazione del valore del mondo e della creazione in generale. Se Dio e mondo sono ontologicamente estranei l’uno all’altro, da ciò ne consegue che anche il sé dell’uomo è qualcosa di totalmente alieno al mondo, in mezzo al quale, si potrebbe dire con linguaggio heideggeriano, si trova semplicemente «gettato». Nei confronti della vita, a me sembra che buona parte dello gnosticismo assume la posizione del saggio Sileno, seguace di Dioniso, quando interrogato da re Mida su quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo, afferma: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa migliore per te è – morire presto»[vi].
Quelli che più di altri hanno incarnato alla lettera tali precetti sono stati i catari medievali del midi francese, che altro non sono che gli gnostici del XII secolo. Allorché il credentes accedeva – attraverso il rito del melioramentum – al rango di kàtaros (puro, perfetto), egli doveva cominciare a praticare un’ascesi rigorosa: «astenersi da ogni contatto sessuale – i frutti del quale perpetuavano la schiavitù dello spirito all’interno della materia –, rifiutare qualunque cibo che fosse frutto d’accoppiamento (non solo la carne dunque, ma anche le uova, il latte, i suoi derivati) e poi quando fosse pronto, lasciarsi morire attraverso l’endura, un digiuno totale»[vii]. Qui la redenzione dello gnostico consiste nel liberare le scintille di luce spirituale imprigionate nel corpo, tramite l’annientamento dell’involucro materiale che le avvolge e la xeniteia assume la forma del suicidio: un estraneamento dal mondo che coincide con il suo superamento definitivo.
Nello gnosticismo l’identificazione del male con la natura e le leggi del mondo può anche assumere la forma del libertinismo, la cui strategia può così essere sintetizzata: a ogni legge stabilita dal mondo o dalle potenze del mondo, bisogna rispondere con l’infrazione. L’espressione più evidente di tale atteggiamento è infatti la derisione dei Dieci Comandamenti, insieme alla raccomandazioni di trasgredirli sistematicamente. «Comunismo radicale e antinomismo – scrive Gershom Scholem – furono la coerente conseguenza di questa [ideologia]. Poiché la differenza fra mio e tuo, nonché il concetto di peccato stesso, sono frutto solo della legge istituita nel mondo degli uomini, il ristabilimento della vera condizione umana si può compiere solo ribellandosi a questa legge. (…) Il libertinismo attribuisce significato sacramentale e valore redentore esclusivamente alle azioni riprovevoli. Solo un atteggiamento radicalmente contrario al kosmos è degno dell’anima e può liberarla dai legami col mondo contrario al divino, e appunto per questo ogni mancanza di tale atteggiamento rappresenta un tradimento della propria essenza e una grave colpa per la quale l’anima viene condannata a rinnovate incarnazioni. Il fondamentale disprezzo di ogni ordinamento terreno coinvolge allora anche il matrimonio, perché sarebbe anch’esso mosso dall’obiettivo di sottomettere gli uomini al potere di quelle forze che regolano gli ordinamenti interni del mondo. A ciò il libertinismo vuole opporsi con la comunanza delle donne e la procreazione nel libero amore, cose che avevano il loro significato appunto nel fatto di rappresentare una consapevole violazione degli ordinamenti naturali»[viii]. Carpocrate, eresiarca egiziano vissuto nella prima metà del II secolo, e i suoi seguaci, sono i primi classici rappresentanti di questa tendenza antinomica. Tuttavia, tale antinomismo di carattere gnostico riemerge anche nel tardo ebraismo del XVII secolo, con la cabbala eretica di Sabbatai Zevi, continuando ad essere attivo, anche nel secolo successivo, nella dottrina nichilistico-religiosa di Jacob Frank.
Il nichilismo, dunque, è antico quanto la nostra civiltà, e non è affatto vero, come dice Scholem, che sia cominciato solo con la secolarizzazione della vita sociale e spirituale. Molto e molto tempo prima di Nečaev e Bakunin, lo gnosticismo aveva già posto al centro della propria utopia la potenza redentrice della distruzione nichilista. Tuttavia, se ancora nel XIX secolo il nichilismo è riuscito ad innestarsi su componenti anarchiche e libertarie, mettendo in moto un vasto processo rivoluzionario che nel XX secolo avrebbe distrutto l’Impero zarista, per poi continuare ad operare nell’Internazionale come politica mondiale finalizzata ad annientare l’imperialismo occidentale; ebbene con la chiusura di questa storia, che si consuma definitivamente tra il ’45 (fine della Seconda guerra mondiale) e il ’91 (data storica del crollo dell’URSS) il nichilismo, perdendo definitivamente la sua scorza ideologica rivoluzionaria e ha finito per diventare una forma di esistenza estremamente diffusa nelle nostre attuali democrazie occidentali. Ciò significa che il nichilismo nato come gesto rivoluzionario, cioè come nichilismo “attivo”, nella nostra epoca si è affermato come nichilismo “passivo”, cioè come una forma della vita che, subendo la disgregazione dei valori, cerca tutto ciò che ristora, tranquillizza, stordisce. Oggi il nichilismo non è più la nefasta utopia di sette religiose o di stravaganti avanguardie rivoluzionarie, ma ha trovato la sua realizzazione integrale nella quotidianità del vivere, cioè nel nostro modo di produrre, consumare, costruire, abitare. Che cosa c’è di più nichilistico dell’ethos occidentale, della vita nell’antropocene, dell’imperialismo ambientale della metropoli, della deforestazione, della distruzione della biodiversità, dell’inquinamento nucleare, del vivere senza mondo?
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La catastrofe ecologica planetaria, che segna tragicamente l’inizio di questo nuovo millennio, è una conseguenza della prassi distruttiva affermatasi in epoca moderna. In estrema sintesi è questo il significato di «Antropocene», il neologismo proposto dal chimico dell’atmosfera olandese Paul Crutzen per designare la nuova epoca geologica che segue l’Olocene e che, per l’appunto, sarebbe iniziata con la Rivoluzione Industriale, per poi intensificarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale. La cosa più interessante di questo concetto è che ci dice che non c’è nulla di naturale nella catastrofe planetaria che stiamo attraversando. Ciò che invece risulta essere ingannevole nell’«Antropocene» è l’assumere l’umanità come totalità omogenea – la specie umana –, inducendo a credere che dei disastri prodotti dal capitale siano responsabili tutti gli esseri umani: poveri e ricchi, colonizzati e colonizzatori, espropriati e espropriatori, subalterni e dominanti. Ma a questo punto è opportuno chiedersi se la critica al capitalismo sia sufficiente per comprendere la catastrofe planetaria, o se sia necessario risalire il corso della storia per una più profonda comprensione del fenomeno. In un certo senso, si tratta di riportare la catastrofe alla sua «origine», al suo «inizio», nel senso nietzscheano di Herkunft (provenienza) ed Entstehung (punto di insorgenza). Si tratta cioè di scoprire il momento in cui dei saperi, dei discorsi, delle prassi, delle modalità di relazione si sono costituite. A questo proposito, Giorgio Agamben richiama la nostra attenzione sul fatto che «il termine greco archè ha due significati: significa tanto “origine, principio”, quanto “comando, ordine”. (…) Che si tratti di un essere, di un’idea, di un sapere o di una prassi, in ogni caso l’inizio non è mai un semplice esordio, che poi scompare in ciò che segue; al contrario l’origine non cessa mai di iniziare, cioè di comandare e governare ciò che ha posto in essere (…) L’inizio non può qui mai diventare un passato, non cessa mai di essere presente anche se rimane nascosto, perché esso determina e comanda lo sviluppo della storia»[ix]. In tal senso, l’origine (nascosta), ma materialmente agente, dell’attuale catastrofe ecologica è un certo modo di rapportarsi al mondo, a sé e agli altri, dettato dai principi inscritti nelle antiche metafisiche dualistiche di matrice gnostica. L’estraneità ontologica tra Dio e mondo, mondo e uomo, spirito e materia – scorporata dalla sua collocazione storica nella tarda antichità – è una dimensione che ha avuto ed ha delle implicazioni e delle conseguenze profonde sull’ethos occidentale, inteso come modo di vivere. Con la sua metafisica, con la sua scienza, con la sua tecnologia, con il suo modo di produrre, di costruire, di consumare, di abitare, la forma di vita dell’uomo occidentale ha devastato il mondo terrestre, trasformandolo in un astro desolato. L’estraneità al mondo dell’uomo occidentale è l’apriori metafisico dell’attuale catastrofe.
Ma se l’estraneità al mondo segna in profondità la civiltà occidentale, perché non chiamare in causa, accanto allo gnosticismo, anche il cristianesimo, le cui dottrine della vanità del mondo, della fuga mundi e del contemptus mundi, oltre ad alimentare per tutto il Medioevo la spiritualità dei monasteri e dei conventi, hanno finito per influenzare culturalmente cerchie sempre più ampie di laici devoti almeno fino al XVIII secolo? Innanzitutto per una ragione molto semplice: la spiritualità cristiana, soprattutto quella sviluppatasi in ambiente monastico, ha perseguito una forma di estraneazione dal mondo profondamente differente da quella perseguita dalla spiritualità gnostica. La xeniteia cristiana è innanzi tutto una pratica di distacco, di separazione, o se si preferisce, di esodo non dal mondo terrestre, ma dal sistema mondano, dal «secolo», dall’organizzazione politica. L’ascesi dal mondo, come spiega Agostino nella Città di Dio, è un abbandono dei poteri e delle dominazioni – le cose «vane e nocive» – da cui derivano «le preoccupazioni assillanti, i turbamenti, le afflizioni, i timori, le pazze gioie, le discordie, le liti, le guerre, i tradimenti, i furori, le inimicizie, l’inganno, l’adulazione, la frode, il furto, la rapina, la slealtà, la superbia, l’ambizione, l’invidia, gli omicidi, i parricidi, la crudeltà, la spietatezza, l’ingiustizia, la lussuria, l’insolenza, la sfrontatezza, l’impudicizia, le fornicazioni, gli adultèri, gli incesti e contro la natura dell’uno e dell’altro sesso i tanti stupri e atti impuri che è vergogna perfino parlarne, i sacrilegi, gli spergiuri, le oppressioni degli innocenti, le calunnie, gli inganni, le concussioni, le condanne ingiuste e ogni altro tipo di malvagità che non viene in mente e che non lasciano mai questa triste vita dell’uomo»[x]. Si noti però che questo elenco di nefandezze del sistema mondano, tale da lasciarci senza fiato, soli due capitoli dopo è per così dire mitigato da un elogio del Creato. «Che dirò – scrive Agostino – di quel vivo splendore della luce e della magnificenza del sole, della luna e degli astri; della bellezza ombrosa dei boschi, dei colori e dei profumi dei fiori, della moltitudine degli uccelli, così diversi nel loro canto e nel loro piumaggio; della diversità infinita degli animali, tra i quali i più piccoli sono anche quelli che suscitano più ammirazione? Che dirò di quei soavi zaffiri che addolciscono gli ardori dell’estate? E che dirò di quei tanti vestiti che ci forniscono piante e animali? E se tutte queste cose non sono che le consolazioni di quei miserabili condannati quali noi siamo e non già i premi dei beati, che cosa mai darà Iddio a coloro che ha predestinato alla vita, se dà cose come queste a coloro che ha predestinato alla morte?»[xi]. Come ci mostra Agostino, dunque, il «mondo», per il cristianesimo, è termine ambivalente il cui significato oscilla tra due poli opposti. Ora indica la Terra che, in quanto Creazione, continua a rivelare la bontà e la grandezza del Creatore, oltre ad essere il luogo destinato all’umanità per questa vita; ora indica la sfera mondana in quanto sistema politico in cui domina incontrastata la legge imperiale. La dottrina della vanità del mondo (e quindi del disprezzo che essa merita) dovrebbe essere compresa in quanto principalmente riferita a questa seconda accezione di mondo.
La spiritualità gnostica, a differenza di quella cristiana, ha invece perseguito una forma di xeniteia intesa come fuga ascendente dal mondo sensibile verso l’assoluto, e questo viene teorizzato come qualcosa che accade solo ed esclusivamente tramite la vera gnosi che libera la persona dal corpo e dal cosmo materiale. L’obiettivo di tutta la spiritualità gnostica, come di tutta la pratica e di tutti gli esercizi della vita gnostica, consiste nel separarsi dalla natura, cioè nel disincarnare la mente e l’anima, per ricongiungerle allo stato originario, il Pleroma. Gli gnostici, scrive Francesco I, «concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo. (…) Lo gnosticismo suppone una fede rinchiusa nel soggettivismo (…) ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Esortazione apostolica Gaudete et Exultate, capitolo secondo, “Due sottili nemici della Santità”). Lo gnosticismo, dunque, afferma la visione di una salvezza affidata alle forze del singolo, cioè si fa strada la visione di una salvezza meramente interiore e individuale, ma senza trasformare i rapporti con gli altri e con il mondo esterno. Nel momento in cui l’io si scopre come incommensurabile con tutte le cose della natura, la salvezza consiste nell’elevarsi con l’intelletto al di là della vasta prigione dell’universo materiale verso i misteri della divinità ignota. Nella Creazione non si riconosce più la bontà e la grandezza del Creatore, ma si vede solo una realtà ostile, priva di senso, ontologicamente estranea al soggetto. L’uomo non è più parte integrante del mondo, in quanto ontologicamente differente da esso. L’atteggiamento gnostico sostiene un’assoluta differenza di essere, non una semplice differenza di valore. Anche coloro che per il grado di virtù terrena sono gli infimi, se sono portatori del pneuma, sono comunque superiori al mondo terrestre, al sole, alle stelle. Così, il dualismo gnostico, sostenendo l’incommensurabilità ontologica tra l’uomo e il mondo, è altresì foriero di una metafisica antropocentrica che annulla il mondo.
L’antropocentrismo, cioè mettere l’umano al centro, è un progetto che al di là della sua provenienza gnostica è stato condiviso, seppur in forme diverse, dal cristianesimo, dall’umanesimo classico sviluppatosi tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo, dall’umanesimo scientifico del periodo immediatamente successivo, dalla tradizione politica della sinistra. Quello che la civiltà occidentale non ha capito è quanto la Terra sia stanca dell’umano e quanto gli altri esseri umani e non umani siano stanchi dell’Anthropos, «questa specie che ha creduto di essere il gioiello della creazione, che si è sentita in diritto di distruggere tutto perché tutto le era dovuto»[xii]. Tradire la Terra, ponendo l’uomo al centro, è stato e continua ad essere il Grande Errore dell’Occidente.
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Per i tecnofili occidentali, la catastrofe ambientale planetaria che stiamo vivendo è una formidabile occasione per dimostrare che il mondo terrestre è una struttura materiale diventata superflua e, quindi, non più necessaria agli umani. Il principio gnostico di una autosalvazione dell’uomo mediante la conoscenza è oggi operante nell’idea di un’autofabbricazione dell’uomo e del suo ambiente attraverso l’eugenetica e la sintesi tecnologica di una nuova Natura. Questa utopia tecno-teologica iperprogressista denominata «Singolaritarismo» – neologismo davvero infelice – ha tra i suoi padri fondatori Vernor Vinge, scrittore di fantascienza e professore di matematica all’Università di San Diego (California), e Raymond Kurzweil, informatico newyorchese, oggi ingegnere capo di Google e acclamato profeta della cultura high-tech della Silicon Valley. «Singolarità – spiega quest’ultimo – è il nome di una discontinuità antropologica, di un improvviso rapimento cibernetico annunciato dalla crescita esponenziale della capacità di trattamento dei dati da parte della rete mondiale dei calcolatori. [Quando] questa crescita avrà finalmente superato la capacità complessiva di tutta la natura grigia del pianeta (…), la biologia e la tecnologia umana si fonderanno, creando una forma superiore di coscienza macchinica che resterà tuttavia al servizio dei disegni umani – permettendo, in particolare, la trasmigrazione delle anime, ovvero la codificazione della coscienza all’interno del software applicabile a un numero indefinito di supporti materiali e il loro caricamento in Rete per un’eventuale futura incarnazione in corpi angelici puramente sintetici (o geneticamente “personalizzati” nel minimo dettaglio)»[xiii].
Questa versione dell’antico dualismo cosmoantropologico, oggi inteso come superamento della condizione organica o mondana della specie umana, esprime la fede, e soprattutto il desiderio, che la tecnologia ci condurrà inesorabilmente a uno stato per così dire übermenschlich, cioè di oltre-umanità, a una Nuova Era, a una sorta di nuovo Millennio antropotecnico, in cui “noi” saremo finalmente liberati dal fardello del mondo. «L’apice dell’Antropocene – scrive l’antropologo Edoardo Viveiros de Castro – condurrà all’obsolescenza dell’umano ma “dall’alto”, ovvero attraverso la sua gloriosa trasfigurazione: nel Regno dell’Uomo, la mondanità sarà assorbita da un’umanità magnificata tecnicamente ed emancipata dal mondo. Non dovremo più rendere conto al mondo né affrontare i suoi limiti, poiché (…) ci saremo trasformati in mondo, in una forma di intelligenza squisitamente sublime – in un Uomo-Universo. Dopo l’apocalisse, insomma, il Regno sarà integralmente umano, o, per essere più precisi, sarà totalmente californiano»[xiv]. I Singolaritaristi sembrano comunque poco preoccupati di sapere se il Sistema Terra sarà ancora abbastanza generoso da concedere il tempo necessario per questo ultimo grande salto in avanti.
Ted Nordhaus e Michael Shellenberger, fondatori del Breakthrough Institute, un think tank anch’esso di provenienza californiana, e autori del libro-manifesto del movimento Breack Through: From the Death of Enviromentalism to the Politics of Possibility (Mariner Books, New York 2007), sono i tipici rappresentanti di quella corrente che l’ecologista canadese Patrick Curry ha definito «i tecnofili della cornucopia». Il libro è una sorta di spot pubblicitario a favore del green new deal del capitalismo, osannato come unica forza in grado di riformarsi e così mantenere i 10 miliardi di persone che, a metà del secolo, popoleranno la Terra. Nella visione che hanno i fondatori di questo movimento, i teorici del rallentamento, gli ecologisti che osano parlare della necessità di ridurre i consumi, gli scienziati che insistono sul pericolo della rottura dei limiti biogeofisici del pianeta, rappresentano un insieme di forze reattive che nega ai popoli del mondo la vita di abbondanza che è il destino della nostra specie. Il problema degli ecologisti è in fondo la mancanza di immaginazione: essi avrebbero dovuto intuire che la soluzione al riscaldamento globale si trova nella liberazione e non nella restrizione dell’attività economica e dello sviluppo tecnologico. Piuttosto che rallentare e ridurre, dobbiamo aumentare e crescere ancora di più, produrre e innovare, per includere finalmente in questa abbondanza coloro che attualmente ne sono privi. I fondatori del Breakthrough Institute sono gli Zeloti del progresso permanente, credono, per dirla con Ulrich Beck, in una «modernizzazione della modernizzazione»[xv], in un perfezionamento del dispositivo tecnico della civiltà capitalista in grado di assorbire, o meglio, di rendere produttive le conseguenze distruttive che ha disseminato lungo il suo cammino. Lo schema esposto dall’ideologia di questi fedeli sostenitori della green economy capitalista può così esser visto come una variante del tema gnostico dell’estraneazione dell’uomo dal mondo, nel senso che nel buon Antropocene a venire, non ci sarà più una lebenswelt. Non tanto perché l’uomo sarà trasfigurato dalla tecnica, ma perché, come precisa Viveiros de Castro, «la vecchia Natura sarà ricodificata (o meglio, riassomatizzata) dalla macchina capitalistica in quanto semplice problema di gestione delle risorse, di governance ambientale. (…) Il sogno antropico dei Moderni sarà allora realizzato (…) l’uomo si troverà finalmente delimitato, contestualizzato e sorretto solo da se stesso, circondato dalla sua immensa accumulazione di merci, alimentato dalle sue nuove e sicurissime centrali nucleari e rilassato da vasti e piacevoli parchi di divertimento ecologici, popolati, naturalmente, da una selezionata flora geneticamente modificata»[xvi].
Infine, c’è una bizzarra variante di sinistra dell’escatologia neo-gnostica fin qui delineata: l’accelerazionismo, i cui teorici sono maggiormente presenti nella vecchia Europa. L’intuizione principale degli accelerazionisti è che un certo mondo è già finito. Questo mondo terrestre che abbiamo immaginato esistere in tutto il suo splendore bucolico prima dell’avvento del capitalismo e che oggi sussisterebbe diminuito e soffocato dall’imperialismo ambientale della metropoli, è un’illusione mitica che deforma la percezione del mondo reale del presente. Il mondo reale è questo nostro mondo devastato del tardo capitalismo, «in cui la “seconda Natura” dell’economia politica esercita la sua incontrastata sovranità metafisica sulla “prima Natura”, la vecchia Physis sempre troppo organica e vitalista. La sussunzione reale si è estesa universalmente, il sistema capitalista è diventato assolutamente egemonico, la sua capacità di neutralizzare e assorbire ogni focolaio di resistenza è illimitata (…). [Per gli accelerazionisti] non c’è più – e pertanto non c’è mai stato – un “fuori” dal Capitalismo (…). Così, l’unico modo di far accadere questo Fuori è produrlo a partire da dentro, mettere la macchina capitalistica in overdrive, accelerare l’accelerazione che la definisce, potenziare la distruzione creativa che la muove, tanto che finisca per autodistruggersi, così da ricrearci in un mondo radicalmente nuovo»[xvii]. Come il Breakthrough Institute e i Singolaritaristi, il movimento accelerazionista condivide la fede nel progresso. Essi ritengono che “noi” dobbiamo scegliere tra il Zoon logon echon che siamo stati e la macchina che saremo. Immaginano una specie postumana riconfigurata da una piattaforma materiale ipercapitalista, ma senza capitalisti. Desiderano un’umanità disincarnata in un mondo de-naturalizzato. La fine dell’umano terrestre, insomma. Le cosmologie della Singolarità, del Breakthrough Institute e dell’Accelerazionismo, nella misura in cui annunciano una mutazione interna del sistema economico attuale, nella quale le forze produttive neocapitaliste sarebbero in grado di generare un nuovo ordine planetario fondato sull’accesso universale dell’umanità a una nuova abbondanza materiale, possono essere considerate come i vangeli neo-gnostici del reincanto capitalista.
L’attuale catastrofe planetaria, in realtà, non ha più molto a che fare con il campo della scelta; tutto ciò non è davanti a noi, come vorrebbero farci credere le élites tecnocratiche, ma in larga parte dietro di noi: la catastrofe è già iniziata da parecchio tempo e non è più reversibile. Il sistema Terra, in quanto sostrato materiale del capitalismo, non è più in grado di reggere il modo di vita occidentale. Prestare attenzione alle pratiche spirituali, di vita e di lotta che agiscono direttamente nei termini di un’altro rapporto al mondo, ponendo al centro la Terra piuttosto che l’Uomo, può essere un’utile esercizio per immaginare una via d’uscita dalla catastrofe del presente.
[i] Cfr., H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino 1991, in particolare “Sommario dei fondamentali principi gnostici”, pp. 45-49
[ii] J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 55 e p. 109.
[iii] L. Bagetto, San Paolo, Feltrinelli, Milano 2018, p. 91, p. 101 e p. 104.
[iv] J. Moltmann, Nella fine l’inizio, Queriniana, Brescia 2004, p. 241.
[v] H. Jonas, Lo gnosticismo, cit., pp. 206-208.
[vi] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972, pp. 30-31
[vii] F. Cardini, M. Montesano, La lunga storia dell’Inquisizione, Città Nuova Editrice, Roma 2005, pp. 13-14
[viii] G. Scholem, Il nichilismo come fenomeno religioso, Giuntina, Firenze 2016, pp. 22-23.
[ix] G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017, p. 91, p. 93 e p. 94
[x] Agostino, La città di Dio, Città Nuova, Roma 1991, lib. XXII, cap. 22, p. 1282
[xi] Ivi, lib. XXII, cap. 24, p. 1294
[xii] Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene – Ai nostri amici – Adesso, Nero, Roma 2019, p. 119.
[xiii] Cit., in D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano 2019, p. 106.
[xiv] Ivi, pp. 106-107.
[xv] Cfr, U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.
[xvi] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, cit., p. 111.
[xvii] Ivi, pp. 113-114.