Alessandro Baccarin
«La xeniteia è la rinuncia irrevocabile a tutto ciò che per noi ha il sapore della patria, e che si contrappone fra noi e la santità, il nostro scopo ultimo. La xeniteia è il comportamento privo di vacuità, la saggezza intima, l’unione senza politica, la forma di vita segreta, il fine invisibile, il pensiero del mistero, la fame di frugalità, il desiderio ardente di povertà, la sete inestinguibile del divino, la pienezza d’amore, l’odio viscerale per la fama, la profondità del silenzio».
Con queste parole di marmo Giovanni Climaco descrive la xeniteia, il farsi straniero nel mondo del monaco, «la bella emigrazione», come la definisce Evagrio Pontico. Il monaco è lo straniero senza tempo, il senzapatria, il clandestino, il fuoriuscito, l’esule, l’emigrato, il disertore. Ciò che disegna la scelta anacoretica o cenobitica dei monaci è proprio il rifiuto della città, con la sua società e la sua politica. I monaci si collocano inequivocabilmente al di fuori di tutto ciò che è definito civiltà. É a questo rifiuto che dobbiamo ricondurre il sarcastico riferimento di Climaco all’odiata «fama».
In questo senso il monachesimo, dalle sue origini almeno fino a Francesco, traccia il tentativo di una forma di vita estranea alla città e a qualsiasi filosofia politica. Non a caso i centri anacoretici e cenobitici del monachesimo del deserto greco orientale, o quelli del deserto silvestre latino occidentale, sono stati sempre organizzati al di fuori delle mura cittadine e della polis. Un gesto di estraneità, questo, che sembra recuperare quell’ancestrale rapporto con la natura che era proprio dell’esperienza umana primigenia. Sicché il tentativo del monaco appare come una rottura epocale con quella “grande trasformazione”, come la definiva Karl Polanyi, che aveva trasformato le libere comunità di cacciatori in aggressive società di cittadini, sudditi o fedeli, di una città, un impero, una religione, un’economia. Sarebbe necessario, forse, ribaltare definitivamente quel pregiudizio storicistico sul medioevo, che fa di quest’epoca una età di decadenza e di barbarie, ed osservarvi invece un tentativo di rottura e destituzione, riuscito o meno, con la polis-civitas, questo centro agonistico di potere, fondato sulla violenza e la sopraffazione tanto quanto gli altri modelli societari dell’Estremo e Vicino Oriente.
Il rendersi straniero del monaco implica un farsi straniero al mondo, al secolo. Saeculum è termine latino che traduce il kosmos greco: la xeniteia appare allora come il rifiuto di un ordine, lo smascheramento della natura disordinata dell’ordine comune, e la scelta, ancorché radicale e sofferta, di un ordine superiore, inattingibile ad ogni riduzionismo, sia questi quello dell’identità dell’io, della patria, della società o della politica.
Di fronte ad una scelta di vita così anarchica il compromesso con il pensiero comune, quello sul quale si fonda una società, diventa inaccettabile. Per questo il monachesimo fu uno dei pochi movimenti di pensiero, assieme all’epicureismo ed al cinismo, a rifiutare la rappresentazione del sogno quale strumento di comunicazione con il divino, tipica di tutte le culture premoderne mediterranee e non solo. In queste pagine intendo descrivere brevemente la natura di questo rifiuto, nelle sue profonde connessioni con la forma di vita anarchica e rivoluzionaria dei padri del deserto.
Il sogno, per tutte le culture premoderne, è stato lo strumento privilegiato per la comunicazione diretta con la sfera del divino. Attraverso la porta onirica, sia nella sapienza folklorica che in quella filosofica, si riteneva che la parte divina dell’anima riuscisse a liberarsi delle pastoie del corpo per poter osservare il futuro, il passato e l’intervento divino nel mondo. Di qui le due branche principali dell’onirologia antica: l’oniromantica, ovvero la disciplina che leggeva nelle immagini oniriche una previsione del futuro, e l’oniroiatrica, la grande tradizione sacra relativa all’intervento divino attraverso il sogno per la cura di malattie, per la fertilità e in generale per tutto ciò che attingeva la salute del corpo.
Entrambe questi campi trovavano uno spazio comune nel rito dell’incubazione. Laddove il pellegrino, il malato, l’uomo comune, ma anche il sovrano o il magistrato della città, si recava presso templi e santuari sacri a entità divine incubatorie, per dormire e, attraverso i sogni ricevuti, avere visioni del futuro, ricevere consigli, prescrizioni mediche, oppure esperire direttamente la guarigione al risveglio.
Questi saperi e queste ritualità, che hanno caratterizzato fortemente l’esperienza del sacro dal paleolitico alle soglie dell’età moderna, non hanno conosciuto fratture consistenti nel passaggio dai culti antichi a quelli cristiani. Così, alle divinità incubatorie come Iside, Asclepio e Serapide, si sono sostituiti i santi anargyroi, i santi medici che “gratuitamente” guarivano in sogno, come Cosma e Damiano, Tecla, Artemio, Demetrio o l’Arcangelo Michele.
La chiesa stessa, in quanto istituzione, ha tenuto sempre un atteggiamento ondigavo a questo riguardo. Da una parte condannava le pratiche incubatorie dei “gentili”, equiparandole a culti demoniaci, dall’altra permetteva la persistenza e la diffusione della devozione popolare per i santi “guaritori”, il cui culto era fortemente legato all’esperienza ancestrale del sacro. Di qui i provvedimenti normativi (Sinodo di Ancira del 314, Codice Teodosiano ecc.) o le opere dottrinali (da Giustino ai padri cappadoci) miranti alla condanna dell’incubazione, e dall’altra il tentativo di articolare una scienza onirologica cristiana (da Tertulliano a Giovanni di Salisbury) sul modello di quella pagana. Esemplare a questo riguardo è il comportamento di Cirillo, vescovo di Alessandria nel V secolo, che da una parte distrugge il santuario incubatorio di Iside a Menouthis, attuale Abukir, e dall’altra trasferisce nella medesima località il culto incubatorio dei santi “guaritori” Ciro e Giovanni.
Qual’è l’atteggiamento dei monaci di fronte a questa tradizione? Sostanziale indifferenza, questa è forse la risposta corretta. Per chi, come il monaco, cerca l’invisibile nel visibile e vive il tempo del non tempo, il “già e non ancora”, il sogno è semplicemente lo strumento per osservare il proprio cammino nel “farsi straniero”. La misura della propria imperturbabilità (tekmerion apathes) definiva il sogno Evagrio Pontico, ossia lo strumento attraverso il quale il monaco può misurare il discioglimento del suo io, in quanto entità dotata di volontà, nell’immensità dell’essere divino. Per i monaci il mondo onirico non rinvia ad un mondo altro, semmai implica la presenza del demoniaco dentro di sé, quella barriera che impedisce all’identità di dissolversi nel tutto.
Questo atteggiamento di centratura nel proprio cammino fa sì che per i monaci il sogno erotico, con l’eventuale polluzione notturna, costituisse null’altro che il segnale di una tecnica di sé ancora incerta e fallace. Così, se la patristica ed i penitenziari, medievali e post-tridentini, hanno fatto del sogno erotico uno strumento per il governo delle anime e dei corpi, i monaci, da Evagrio Pontico a Giovanni Climaco, da Diadoco di Fotice a Giovanni Cassiano, si sono sostanzialmente disinteressati delle loro visioni erotiche notturne, per concentrarsi invece su ciò che i sogni rivelavano di fondamentale per loro: ovvero la difficile scelta della xeniteia.
Evagrio Pontico ricordava come gli affetti perduti, la famiglia abbandonata, la casa, il villaggio o la città natale popolassero i sogni del monaco, e come fossero questi feroci e dolorosi ricordi, trasformati in apparizioni oniriche, a costituire il pericolo più grande per colui che si era fatto straniero al mondo. La xeniteia, la ricerca dell’invisibile attraverso la rottura con il noto ed il passato, era un cammino arduo, sofferto e incerto. Non a caso Giovanni Climaco paragonava questo cammino ad una scala tesa fra la terra e il cielo, laddove ogni gradino poteva essere un passo falso verso il baratro, o un balzo verso la perfezione.
Tuttavia, nel cenobitismo e nell’anacoretismo, le due forme di vita a cui conduceva questo “farsi straniero”, la rottura con il disordine dell’ordine apparente esterno faceva vivere prove ed esperienze di Regno. Sempre Giovanni Climaco ci descrive la vita di un grande monastero nel deserto egiziano, nei pressi di Alessandria, dove era regola che un fratello, accortosi di un dissidio fra due confratelli, poteva denunciare sé stesso presso il padre spirituale (Abba), in modo che la sua punizione fosse motivo di riconciliazione per i due contendenti. E ancora era prassi in questo, come negli altri monasteri del deserto, che se un monaco infrangesse la regola o commettesse un crimine, gli altri confratelli si presentassero in gruppo al padre spirituale come colpevoli, in modo che la leggera punizione ricevuta dal gruppo disinnescasse il dispositivo colpa/colpevole, peccato/peccatore. Presso Nitria, a quaranta km. da Alessandria, esisteva un importante centro cenobitico ed anacoretico: qui, riferisce il monaco Palladio, sorgeva un monastero dove i pellegrini trovavano accoglienza. Non veniva loro chiesto se fossero disertori, criminali, schiavi fuggitivi o esuli: veniva invece dato loro cibo, bevande e ricovero. In seguito, se volevano rimanere per più tempo, era concesso loro risiedere nel monastero anche per due anni, pur rimanendo laici, a patto che aiutassero gli altri fratelli nei campi, dato che tutti dovevano contribuire alla produzione del cibo per la comunità.
Leggendo le vite dei padri del deserto, questa letteratura del sublime e della sofferenza, ci si chiede quale fosse la forza d’attrazione che quella forma di vita, eletta e dolorosa al medesimo tempo, esercitasse sugli uomini delle città e delle società. Quale, ad esempio, la motivazione profonda che aveva animato Maria Egiziaca nel suo radicale anacoretismo nel deserto palestinese. Sofronio, vescovo di Gerusalemme, ci ha restituito una biografia agiografica della santa: originaria di Alessandria, una donna come tante, con le sue debolezze, le sue colpe e le sue speranze, Maria si era recata a Gerusalemme per pregare sulle reliquie della santa croce. Qui una forza misteriosa l’aveva condotta fuori dalla città, nel deserto oltre il Giordano, per condurre una vita in assoluta solitudine durata ben cinquant’anni. I miracoli, i prodigi e le apparizioni angeliche che contrassegnano il racconto agiografico non rispondono alla nostra domanda sulle motivazioni profonde di questo radicale estraniamento dal mondo.
E’ noto che il lettore migliore, e forse l’unico possibile, del mistico sia il poeta e il pittore. Alda Merini osservava nel volto di Maria Egiziaca ritratto da Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, su di una tela destinata alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, i riflessi di un’alba incaricata di raccogliere l’eco lontana prodotta dal boato del tempo.
Nel grande dipinto del pittore veneziano la parabola agiografica di Sofronio si riconosce a stento: l’anacoreta, che l’agiografo descrive nuda, incanutita, bruciata dal sole, in una forma corporea a stento distinguibile da un’animale o da uno spettro, nel dipinto è invece si presenta come una giovane donna rivestita di una splendida veste color porpora, il colore dell’elezione, della saggezza, della santità. Seduta su di un masso, accanto ad una fonte di una sonora acqua cristallina che scorre ai suoi piedi, osserva l’orizzonte. Il suo sguardo è rapito da ciò che è indifferentemente un’alba o un tramonto, una creazione o un’apocalisse. La donna sembra seguire sulle sacre scritture, aperte sulle sue ginocchia, ciò che sta prendendo corpo davanti ai suoi occhi, sicché non sappiamo se stia leggendo la Genesi o l’Apocalisse di Giovanni. Accanto a lei, sulla sua destra, quasi a comporre un dittico con il suo corpo, una palma si incendia di luce: una esplosione di vita, di verde e di infinito trasforma quella pianta in un fenomeno soprannaturale. La luce all’orizzonte, l’albero, la fonte, il corpo umano: tutto compone un circolo, dove ogni membro sembra rimandare all’altro e viceversa.
Tintoretto sembra cogliere Maria mentre l’estasi la rende indistinguibile dal tutto, dal mondo, dalle piante, dall’acqua, dal cielo, dalla luce: l’eternità dello spettacolo quotidiano di alba e tramonto si fa indistinguibile da quello apocalittico e messianico di genesi e morte. E’ solo grazie allo sguardo di Tintoretto, il più visionario dei pittori del Cinquecento, che possiamo capire cosa trattenne Maria nel deserto per tutti quegli anni: poter assistere ogni giorno al ciclo sacro del vivente, osservare come su di un palcoscenico l’alba e il tramonto, la creazione e il Regno, facendosi lei stessa alba, tramonto, pianta, acqua, luce, nel grande ciclo dell’essere.
Principali testi dei Padri del deserto e della patristica consultati per il presente lavoro:
Diadoco di Fotide, Kephalaia gnostike (Diadoque de Photicé, Oeuvres spìrituelles, Édouard des Places (ed.), Sources Chrétiennes 5bis, Les Editions du Cerf, Paris 1955)
Evagrio Pontico, Capita practica ad Anatolium, II,54-56, (Evagrio Pontico, Traité Pratique ou Le Moine, Tome I, Antoine Guillamount – Claire Guillamount eds., Sources Chrétiennes n. 170, Les Éditions du Cherf, Paris, 1971)
Giovanni Climaco, Scala Paradisii, Patrologia Graeca 88, coll. 579-1248
Giovanni di Salisbury, Policraticus, II,14-17, Patrologia Latina, 199, coll. 429A-436A
Giustino, Apologia I,14
Gregorio Magno, Dialoghi, IV,50 (Gregorio Magno, Storia di santi e diavoli, II, Salvatore Pricoco – Manlio Simonetti eds., Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006)
Isidoro di Siviglia, De tentamentis somniorum, Patrologia Latina 83, coll. 668-671
Palladio, Historia Lausiaca, Patrologia Graeca, 34, coll. 995-1278
Pseudo-Cirillo, Omelie, XVIII, 3, Patrologia Graeca 77, col. 1105A
Pseudo-Giustino, Quaestiones et responsiones ad orthodoxos, 21, Patrologia Graeca 6. coll. 1265-68
Rufino di Aquileia, Historia Monachorum, 20, Patrologia Latina 21, coll. 442C – 445B
Sofronio di Gerusalemme, Vita e miracoli dei Santi Ciro e Giovanni, Bibliotheca Hagiographica Graeca, I 477-479
Sofronio di Gerusalemme, Vita di Maria Egiziaca, Patrologia Graeca 87, coll. 3697-3726
Tertulliano, De Anima (Quinti Septimi Florentis Tertulliani, De anima, J.H. Waszink ed., Supplements to Vigilaie Chistianae, vol. 100, Brill, Leiden – Boston 2010)