Da “Beata semplicità. La sfida di scoprirsi monaco” (Cittadella editrice) di Raimon Panikkar
Prologo. La vocazione monastica: il monaco è un archetipo universale?
Οσ πoρευεται απλως πoρευεται πεποιδως Qui ambulat simpliciter ambulat confidenter Colui che cammina con semplicità cammina sicuro (Prv 10,9)
Il tema che mi è stato assegnato è «il monaco come archetipo universale». La frase è ambigua, come si vedrà subito. Ma la sua ambiguità è rivelatrice. Qui io ho delle esitazioni: sento di stare per rompere qualcosa invece di costruirlo. È doloroso fare a pezzi ciò che si vede come intero: eppure per parlare, per spiegare, per svolgere, per distendere nel tempo e nello spazio, occorre dividere le cose. Come il corpo di Parajapati smembrato nell’atto della creazione, sembra che questa visione semplice e ineffabile, che per me è il simbolo del monaco, possa essere comunicata solo in frammenti. Devo iniziare a prendere un martello per distruggere «l’archetipo universale del monaco», proprio come un bambino che rompe i suoi amati balocchi per vederne il contenuto. E dentro si scoprirà forse soltanto il vuoto…
La mia presentazione avrà un prologo e tre parti diseguali. Il Prologo è un’indicazione sul metodo. La prima parte tratterà la comprensione centrale della dimensione monastica in quanto archetipo umano. La seconda parte tenterà di dare una definizione della vocazione monastica contemporanea in 9 capitoli che sviluppano un principio generale. La terza parte rappresenterà la sintesi dell’argomento che prende la forma di riflessioni generali su questo inesauribile argomento.
Fin dalla prima giovinezza mi sono visto come monaco, ma senza monastero, o per lo meno senza muri, se non quelli di tutto il pianeta – e anche questi mi pareva che dovessero essere trascesi, probabilmente per mezzo dell’immanenza – senza un abito, o almeno senza abiti diversi da quelli indossati dalla famiglia umana. Anzi, questi stessi abiti dovevano essere smessi, perché tutti gli abiti, facendo parte di una cultura, sono rivelazioni solamente parziali di ciò che essi nascondono: la pura nudità della trasparenza totale, visibile solo all’occhio innocente dei puri di cuore.
Mi sento perplesso riguardo al modo di procedere. Forse il metodo migliore sarebbe stato quello di prendere alcune figure seminali come Buddha, Antonio, Milarepa, Shankara; forse anche più moderni come Bruno, Dogen, Ramana Maharshi, e trarre da essi l’archetipo del monaco. Un modo di procedere relativamente più facile, e certamente più interessante, specialmente per coloro che sono in certo qual modo familiari con questi giganti della spiritualità monastica. Avremmo avuto allora dei testimoni di una qualità della vita e di una maturità umana che ci sarebbero serviti come fiaccole per il nostro incerto pellegrinaggio. Dai loro esempi saremmo potuti arrivare all’archetipo monastico.
Ho seguito un metodo diverso per due motivi. Primo, i monaci conoscono già molti di questi modelli; secondo, presentare il monachesimo nel suo aspetto migliore non sarebbe un contributo sufficiente a fronteggiare il cambiamento che sta emergendo oggi. Una simile presentazione ci avrebbe reso tutti orgogliosi e fieri di simili predecessori, ma avrebbe forse velato ai nostri occhi quella che io considero la sfida del nostro tempo. Ci avrebbe allineati alla mentalità del try harder (prova con più determinazione) che consisterebbe nell’imitare i loro risultati, ma ci avrebbe distratti dal considerare che forse il momento attuale esige da noi una nuova metanoia, una nuova conversio, un radicale cambiamento di mentalità o conversione, invece di una rinnovata imitatio, una imitazione modernizzata.
A un uditorio non monastico direi che questa presentazione parla al monaco che è dentro ognuno di noi e non intende soppiantare o correggere la fiorente letteratura sul monachesimo. Vorrebbe invece ispirare il lettore a scavare entro le sorgenti di questa ricca tradizione umana. Le due ragioni sono collegate. Non sono tanto rivolto a raccontare la storia del passato, o anche ad addentrarmi nel futuro storico, quanto a sondare il presente transtorico per noi qui e ora. In altri termini, poiché sono esistenzialmente interessato alla nostra vita quotidiana e alla situazione attuale, usando l’ambiguità della frase «archetipo monastico» mi dedicherò non a descrivere il monaco come archetipo, cioè il monaco come paradigma della vita umana, ma ad esplorare l’archetipo del monaco, vale a dire la dimensione monastica come un possibile archetipo umano. In effetti, la frase «archetipo monastico» può voler dire che c’è un archetipo monastico del quale il monaco è l’esempio, o del quale il monaco è la manifestazione.
La distinzione è importante e sottile. Il monaco come archetipo potrebbe significare che esiste un ideale di monaco e che i monaci hanno incarnato questo ideale a vari livelli. Il mostrarlo potrebbe essere la via migliore per una renovatio, un rinnovamento della purezza originaria del monaco. È, questo, un interesse legittimo e urgente, ma, in un certo qual senso, congela la creatività umana in quanto ci vincola a una essenza immutabile e quasi platonica del monaco ideale. Archetipo qui vuol dire modello, una forma prototipica (morphè) la quale lascia spazio solo per spiegazioni e chiarificazioni. Non ci rimane altro da fare che impegnarci ad essere monaci buoni e perfino migliori. Parlare dell’archetipo del monaco, invece, significa asserire che c’è un archetipo umano che il monaco elabora con maggiore o minore successo. I monaci tradizionali possono avere interpretato a modo loro «qualcosa» che anche noi possiamo essere chiamati a realizzare, ma in un modo differente che esprime la crescita e la novità dell’humanum. Archetipo qui vuole indicare un prodotto di forze e fattori diversi, consci e inconsci, individuali e collettivi, che prendono forma entro una particolare configurazione umana. In un certo senso, ci offre mano libera per addentrarci ad esplorare il dinamismo stesso dei molteplici fattori che plasmano la vita umana. Siccome «archetipo» qui non vuol indicare un modello, ma piuttosto il prodotto della vita umana stessa, risulta mutevole e dinamico.
Ma la distinzione è anche sottile, perché non permette nessuna separazione. Possiamo non avere altro accesso all’archetipo se non quello di studiare o di venire a conoscere il monaco come archetipo. Non possiamo creare dal nulla, nemmeno possiamo improvvisare un archetipo secondo le nostre fantasia. È l’esperienza degli antichi cristallizzata nella tradizione e la reinterpretazione di quella stessa tradizione che ci darà le ali per percorrere a volo un itinerario umano che ci consentirà di non disintegrarci a mezz’aria perché le nostre ali erano artificiali. Ecco un corollario interessante di questa distinzione senza separazione: considerare il monaco come archetipo, cioè come un modello, ci aiuta a ritornare alle sorgenti e ad esplorare gli inizi del monachesimo.
Dobbiamo mantenerci in contatto con la tradizione. D’altro canto, studiare l’archetipo del monaco e l’accumulo della esperienza umana che ancora continua, ci porta a osservare i segni dei nostri tempi e a orientarci verso il futuro. Dobbiamo decifrare l’enigma della modernità. Dico enigma, perché dovremo distinguere fra la moda passeggera e superficiale e il contributo reale che arricchisce e continua il patrimonio della tradizione.
Questo significa che, a dispetto del nostro sottolineare le differenze fra tradizione e modernità, come faremo per ragioni euristiche, non dovremmo perdere di vita la loro continuità. In effetti, i nuovi monaci sono proprio quelli che contribuiscono alla cristallizzazione dell’archetipo che io mi sforzerò di delineare.
L’argomento è così enorme e la letteratura in merito così ampia che io posso rendergli giustizia solo minutamente, anche se mi limito alla quintessenza della dimensione monastica. E tenterò di farlo solamente da una prospettiva antropologica. Questo non solo implica un limite – altrimenti, si può dire quasi tutto dei monaci e degli archetipi – ma anche una direzione particolare: un metodo che non tiene conto solo dei lineamenti sociologici comuni, delle somiglianze dottrinali, o dei comuni denominatori religiosi, ma anche di quegli aspetti dell’essere umano che sono più profondamente radicati nella sua natura. Lo faremo, ripeto, senza ignorare l’ideale monastico tradizionale e senza spiegare semplicemente le cose del passato.
Allora, per essere espliciti: è il monaco un archetipo universale, vale a dire un modello universale per la vita umana? No. Il monaco è solo un modo di realizzare un archetipo universale. Eppure è entro e attraverso questa via (monastica) che noi possiamo accedere all’archetipo universale del quale il monaco è una manifestazione. Questo ci permette di parlare dell’archetipo universale del monaco, a condizione di non bloccare il dinamismo interno della dimensione monastica e consente anche di parlare del nuovo monaco.
Il metodo per questa iniziativa è piuttosto speciale. Richiede i metodi fenomenologici, socio-morfologici e storici, semplicemente per spiegare le manifestazioni del monachesimo, ma deve andare un po’ più oltre. E per far questo dobbiamo ricorrere a un tipo di approccio filosofico e di introspezione personale. Ritengo che il primo punto sia sufficientemente familiare, perciò mi concentrerò sul secondo.
Dovremo tenere conto non solo del passato come lo conosciamo, ma anche del presente come lo comprendiamo, e del nostro modo di intendere la vita.
Una semplice riflessione può procurarci l’atteggiamento richiesto. Qualsiasi cosa la dimensione monastica possa essere – e ci sono ventine di definizioni e di descrizioni – sembra avere evidenziato una polarità sintomatica. Da una parte è qualcosa di speciale, difficile, talora perfino strano, con sfumature di non conformismo culturale e sociale; dall’altra, è qualcosa di tanto umano che, in ultima analisi, viene invocato come la vocazione ultima di ogni uomo, quello che ognuno dovrebbe essere chiamato ad essere in un modo o nell’altro, prima o poi. Una coscienza illuminata di questa polarità ci metterà, mi auguro, sulla strada giusta nella nostra ricerca.