Fabio Milana
Contemplazione e combattimento: bel tema, bella sollecitazione, di cui si deve esser grati agli autori. A me risuona immediatamente come “spiritualità e politica”, anche se percepisco che l’intonazione è diversa. Vi prevale un armonico comune alle due tonalità, una tensione trasversale a entrambe, non distribuita tra i due termini ma tale da stringerli in uno stesso nodo storico e pratico.
Qualche decennio fa, non era così. C’era un binomio da spezzare, “fede e politica”. Qui, tra due termini a tal punto disomogenei, c’era e c’è sempre bisogno di una “mediazione”. Si può ammirare e perfino rimpiangere quella allora invalsa; ma era mediazione diventata ormai ragione a sé stessa, declino di una cultura politica e involuzione a ideologia. La sua stessa natura di “mediazione” aveva prodotto il “moderatismo” come vocazione, la “penultimità” come resort di lusso. A quel punto non c’erano più né fede né politica.
Si sarebbe potuto dire “politica e pietà”: anche questo un registro che resta sempre aperto. Qui però, più che una tensione polare, c’era come una relazione tra il tutto e la parte. Se la pietà concerne il cuore dell’uomo, il suo amare (e odiare) nelle mille forme che sono forme dell’unico Amore, anche la passione politica, se radicale e se condivisa, ricade nel suo raggio d’azione; e in quanto si depositi in “engrammi” decifrabili – in testimonianze constatabili, riconoscibili, entra di diritto nella grande “storia della pietà”. Se si pensa in questi termini alla vicenda del Movimento operaio, nei suoi luoghi e protagonisti anche minori o minimi, si intuisce cosa significherebbe riuscire a ricomporne l’“archivio”: un esporla nella luce dell’ultimo giorno.
Ma perché il lavoro della memoria sia a tal punto “salvifico”, occorre nel presente un “indice storico” che ne raccolga il mandato e lo trasmetta. Riattivarlo in una stagione di decadenza era il compito che allora si disse di “spiritualità e politica” appunto. In quanto entrambi dell’ordine pratico, questi due termini non necessitavano e infatti non cercavano una “mediazione” tra loro. In quanto reciprocamente non mediati, potevano procedere nel senso della radicalità. In quanto si radicalizzavano, si allontanavano nelle rispettive traiettorie, verso punti di fuga destinati magari a interagire entro un campo di forze invisibile, ma non a incontrarsi. Si potrebbe dire che dove l’una procede per dissociazioni, l’altra presagisce una misteriosa unità; e dove quella ordina e civilizza, questa inquieta e perturba. Contemplazione e combattimento, in discordante accordo.
Chiedo scusa per questo sfondo velocemente, volonterosamente abbozzato, di per sé non necessario. Serve giusto per chiarire le premesse da cui mi approssimo al nostro tema. Capisco il diverso clima in cui viene a porsi, e capisco l’urgenza di dichiarare una sorta di “stato d’eccezione” in cui, venute meno le geometrie note, le due dimensioni invece convergano e si alleino. Vorrei solo offrire alcune riflessioni in proposito.
Ci sono varie forme di spiritualità, dentro e fuori il cristianesimo. Tutte implicano l’ingresso e il progresso in un itinerario di perfezione. Così è pure in ambito cristiano, entro cui di simili itinerari se ne danno diversi, in genere collaudati e codificati, però non necessariamente. Tutti hanno inizio da una metanoia, nella concretezza del latino: una paenitentia. Qualcosa che nessuno può darsi da solo, e che si tratta piuttosto di riconoscere una volta che ci avvenga dall’esterno. Qui non c’è decisione – la decisione appartiene alla sfera dell’etica. C’è semmai una decisione altra da accogliere, e l’accoglimento comporta sempre il riconoscersi indegni del dono ricevuto, insufficienti e imperfetti di fronte al donatore. Conseguenza immediata è l’assunzione dell’atteggiamento penitenziale, appunto la conversione. Di qui comincia ogni vita spirituale, e di qui progredisce, se quell’atteggiamento si fa abito, di solito ascetico. È questo habitus che farà il monaco: la veste a lutto di Benedetto, il saio color della terra per Francesco. Il giovane Quinzio fantasticava di un nuovo ordine religioso da nominarsi, per la veste, dei “cinerini”.
Se si toglie questa consapevolezza, anzi questo sentimento del peccato, per lo meno in ambito cristiano temo che si tolga ogni accesso alla vita spirituale. Una forma, anche una forma-di-vita, non può essere separata dal proprio contenuto. Non senza correre il rischio del tecnicismo, nel migliore dei casi, dell’estetismo all’estremo opposto. Riprese, slittamenti, “tropi” (le analogie, le metafore etc.) sono possibili e sono necessari; funzionano se c’è equilibrio tra identità e differenza. Naturalmente, ci sono spesso efficienza e bellezza in una vita contrassegnata dall’ascesi, specialmente se vita comunitaria; ma altrettanto spesso mancano del tutto, e talvolta ve ne sono in eccesso. Ciò è in definitiva poco rilevante, a rilevare è una connessione più profonda, un rovello più intimo. Non si lascia il mondo (ovvero la mondanità, il “secolo”) se non nel votum, la promessa, la speranza; perché il mondo è dentro di te. Non è il deserto a fare di te uno “straniero”, il deserto è prima di tutto il luogo in cui, senza ingombro di impedimenti, senza distrazione o dissipazione, sei confrontato a te stesso – al “mondo” dentro di te, il Nemico. E così, il “combattimento” è servito.
Su questo punto, non c’è coerenza tra “cristianesimo” e “comunismo”, per utilizzare aggregati concettuali così complessi e stratificati. Solo al secondo dei due sembra da ascrivere, direi costitutivamente, un’antropologia “ottimistica”: la prospettiva di una educabilità, e plasmabilità, e perfettibilità infinite. La vita spirituale, se non si arresta alla sua “via purgativa” e conosce “progressi”, tuttavia non si fa illusioni su sé stessa, e sa che gli arretramenti, i fallimenti, sono l’ordine del giorno fino all’ora della morte. Non essere “del mondo” apre a un agonismo senza intermissioni, che non conosce battaglie decisive e non si vede perciò mai restituito un mondo (un sé) redento. Anche amare il mondo è possibile solo da questa distanza, in questa “agonia”.
Che la neutralizzazione di questo conflitto, l’oblio del peccato, sia nel codice genetico della modernità, è locus polemico ben stabilito, e non è cosa cui indulgere troppo. Vi sono declinazioni più estreme che sormontano da ogni lato lo spazio-tempo della modernità occidentale. È ad esempio proprio quella dell’impeccanza la tara originaria e perpetua del “Libero Spirito” o di come altrimenti voglia eventualizzarsi lo gnosticismo eterno. All’altro capo di ogni libertinismo è questo autoteismo, che sacralizza la natura, le pulsioni, i bisogni, i diritti, i movimenti, le moltitudini – la pietra d’inciampo di ogni progetto politico non votato al disastro o all’illusione. D’altra parte è ovunque, intorno a noi e dentro di noi, questa sorta di “escatologia realizzata”: l’innocenza adamitica recuperata per auto-imputazione, il terzo regno dispiegato in licenza; l’identità personale annichilata nel Grande Pan, il libero arbitrio dismesso a favore della servitù volontaria. Se osiamo guardare in faccia questa realtà, c’è caso ritroviamo un poco di timor di Dio: col senso della distanza, il senso della differenza.
In altri contesti, la penitenza porta al “povero”, o diciamo te lo fa trovare, e diciamo ancora meglio: penitenza, metanoia, è l’esperienza diretta della “conversione” di un oggetto di disgusto e desolazione (nimis amarum) in oggetto d’amore e perciò di letizia (dulcedo animi et corporis, con le parole di san Francesco). Non stiamo parlando d’altro: di per sé, il “povero” non è che una figura del “deserto”, ed entrambi non sono che controfigura del penitente stesso. È questo “riconoscimento” che si impone: in chi non ha niente, come in ciò che non serve a niente, colui che si metta alla sequela di Cristo è portato a riconoscere la propria stessa situazione esistenziale di convertito; a riconoscersi e assimilarsi. A quel grado zero della natura e dell’umano, corrisponde la gioia di un congedarsi e la forza di un ricominciare. Non si tratta di riscattare il deserto dalla sua infecondità, e nemmeno di beneficare il “povero”. Queste saranno pure cose degne, ma neanche queste sono l’essenziale; tant’è che non hanno di per sé bisogno di una spiritualità cristiana, e a volte nemmeno di spiritualità qualsiasi. Non c’è alcuno “scopo”, nell’assimilarsi al povero o nel ritirarsi in un eremo, che riguardi il povero o l’eremo in sé. Si potranno popolare i siti più fuori mano, come si potranno assistere gli ergotici e i lebbrosi; non si avrà con questo a che fare con un fine in sé della vita spirituale, ma al più con una sua determinazione storica contingente.
Su questo, anche su questo, “cristianesimo” e “comunismo” non sono originariamente in consonanza. Non c’è una comune “tradizione degli oppressi e degli sfruttati”. Non si vede perché non riconoscere che è stato il Movimento operaio, nello svolgimento della modernità, a imporre al cristianesimo di questi sviluppi; e che in particolare il comunismo realizzato ha impresso nel cattolicesimo, in esso soprattutto direi, una sensibilità sociale inedita, rapidamente acuitasi fino a radicalizzarsi. Che ci fosse nel Vangelo questa valenza inattiva, e che una data congiuntura storica dovesse estrarnela a forza, non è meraviglia, se Scriptura crescit cum legente. E che la scoperta e l’esplorazione di questa potenzialità latente abbia dato frutti straordinari di intelligenza e di pietà, non occorre qui sottolinearlo. Ma che si tratti di una struttura originaria, quale il giudeocristianesimo avrebbe trasmesso alle versioni di sé secolarizzate, ed eventualmente poi subìto di ritorno, mi pare da mettere seriamente in dubbio. Non c’è nel Vangelo una connessione di povertà a giustizia (o di ricchezza a ingiustizia), né perciò qualcosa che assomigli a un anelito di riforma sociale, un qualsiasi progetto di cambiamento e miglioramento delle condizioni di convivenza date, procurato o spontaneo. C’è il lieto annuncio del ribaltamento di ogni e qualsiasi ordinamento umano, presente passato o futuro; un sovvertimento in forza di cui ciò che ora (e sempre) nel mondo è scartato e inutile, regna sul mondo: ed è per ciò beato. Beato, capisco io, non in quanto “felice” – benché solo a questo patto possa darsi “perfetta letizia”; ma beato in quanto libero. È a questa beatitudine che aspira e spontaneamente si dirige il penitente. Ed è qui, in questo snodo, anche l’aggancio a una politica che non versi in condizioni ordinarie, ma si trovi in qualche senso “in stato d’eccezione”. Parlo di una politica “moderna”, evidentemente. Che in un dato frangente storico non si scandalizzi di questa rivelazione: gli ultimi regnano. E la contempli, la trattenga per un lungo momento di “accumulazione primitiva” del proprio ethos. E segua poi la sua traiettoria mondana, quella che potrà essere, o che i tempi tollerano.
Allo stesso modo la penitenza porta alla scoperta del fratello, alla ricerca dell’amico, e anche a condivisioni strutturate. Queste solidarietà sono ricorrenti nella vita spirituale, la nutrono e sostengono nel suo difficile itinerario, in certi casi appaiono indispensabili, perché non c’è possibile obbedienza senza l’amicizia e fuori da una comunità. Sorge di qui il fascino delle constitutiones monastiche e delle regole in genere. Loro compito è assicurare coerenza e durata alla conversione: dare forma alla vita dei penitenti, organizzarne la perseveranza, prevenire gli scoraggiamenti, le deviazioni, i ritorni indietro. Si tratta di resistere in un frattempo: e così enunciato, l’obiettivo non è diverso da quello della Chiesa tutta. Ma ciò che per la storia della Chiesa visibile, la Chiesa nel secolo, è un tempo intermedio tra il già e il non ancora, nella comunità regolare è il tempo intermedio del già e non ancora: un tempo altro, i cui termini opposti non si respingono ma si attraggono fino a coincidere – contemplazione e combattimento appunto. Intendo: lode, rendimento di grazie, perfetta letizia; e vigilanza, rinuncia, lotta incessante. “Perfezione” sarebbe il congiungimento dei due termini nel qui-e-ora; altra cosa non è, non può essere, il regno inaugurato sulla croce. Se una cosa del genere è mai possibile (e lo è, sia pure non in modo permanente), è alla perseveranza che va ascritto il merito: quando l’habitus si fa natura, il timore si trasfigura in amore, ed è gloria l’autorinnegamento.
Qui credo che la vibrazione per simpatia col pensiero e l’agire politico possa essere più facilmente avvertita. C’è la conversione e c’è poi la perseveranza, l’interruzione e la continuità, l’attimo e la durata; c’è la frattura e c’è la forma che la contiene e la trattiene. Con una precisazione: che i due termini non stanno esattamente sullo stesso piano. L’aspetto “costituente”, in senso lato giuridico-disciplinare, che siamo soliti riconoscere nelle Regole classiche, e a cui attribuiamo a volte una virtù civilizzatrice (in termini di efficienza e bellezza, ad esempio), è un prodotto secondario e tardivo. In fondo, basta leggerle: le più antiche di queste regole non si differenziano dai florilegi di exempla, sentenze, preghiere; confinano direttamente e a tratti si mescolano con l’agiografia, la catechesi, la conferenza spirituale. All’inizio e alle spalle di ogni “regola” c’è sempre una teoria di precedenti, non per tradizione lineare ma per comunicazione intermittente, “di fede in fede”, che risale a balzi la corrente fino alla “Grande Regola”, il Vangelo. Se non che il Vangelo non è una “regola”, è anzi, se possibile, il suo contrario. A capo o al fondo delle “legislazioni” monastiche c’è questa “costituzione materiale” – la vita di Gesù, e l’imitatio conseguente – che non si lascia formalizzare e a cui perciò, sempre di nuovo e anche periodicamente, si è costretti a ritornare. È un ritornare per immersione, non per consultazione o appropriazione; di nuovo un convertirsi, e ri-formare, ri-cominciare. Nessuna xeniteia può sottrarsi alla “regolarità” di questo “stato d’eccezione”. Non c’è perseveranza che “tenga” fino al punto di dar licenza a tale petizione del principio. Ciò vale in fondo per la Chiesa tutta. Anche se, nella Chiesa, l’ufficio del ritorno è affidato anzitutto al carisma di coloro che si ripromettono l’impossibile perfezione.
Se a mia volta ritorno sul motivo del peccato, non è solo per le ragioni già accennate. Ma è perché il male è troppo grande e troppo incombente. Che sia ormai da imputare in misura prevalente e quasi esclusiva ad anonime “strutture di peccato”, più che a questo o quel soggetto, dice solo che nessuno può “chiamarsi fuori”, nessuno è “innocente”: tutti abbiamo concorso e concorriamo nel dismettere la responsabilità comune per la libertà che ci è stata rivelata. È ancora possibile “estraniarsi”? Si può dubitarne. Quale “ascesi” conviene praticare? La domanda resta aperta. In questa congiunzione, ormai senza alternative e perciò senza più speranza, di “mondanità” e “modernità” – temo si debba constatare un passaggio di storia sacra, qualcosa come la sconfitta di Dio. Solo per questo è, la nostra, “l’epoca più pienamente cristiana che ci sia mai stata”. Ci è dato contemplare l’impotenza di Dio. E insieme, ostinatamente, attendere la resurrezione dei morti. Quei morti siamo noi stessi.
(Delle tante autorevoli voci che sono a qualche titolo echeggiate in queste riflessioni, desidero ricordarne in particolare due, a me tra le più care: Romana Guarnieri, per i suoi studi sul Libero spirito, e Michele Ranchetti, per sue meditazioni sui temi qui trattati che possono leggersi nel primo volume degli Scritti diversi.)