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Xeniteia ed epoché

Epimeteo*

La proposta, vagamente provocatoria, che si vuole avanzare qui, a proposito di xeniteia, contemplazione e combattimento, consiste nell’individuare nell’epoché fenomenologico-trascendentale husserliana una delle forme più radicali di “estraniamento” dal mondo: “La scienza positiva è una scienza che si è smarrita nel mondo. Attraverso l’epoché si deve prima perdere il mondo per poterlo poi riottenere nell’universale presa di coscienza di se stessi. Come ha detto Agostino: Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.” (Meditazioni cartesiane, Brescia 2017, p. 241).

Come è chiaro da queste righe che chiudono le Meditazioni cartesiane di Husserl, la forza esemplare dell’epoché sta nel fatto che l’ascesa dal piano mondano a quello della trascendentalità è funzionale alla conquista di una posizione di superiorità, di un punto di vista dominante a partire dal quale si possa osservare dall’alto il mondo nelle sue strutture di fondo per comprenderlo e dunque realizzare una delle pre-condizioni per poterlo piegare e dominare. Da questo punto di vista, si può rintracciare una relativa affinità tra la dinamica aperta dalla riduzione trascendentale e quanto scrivono Mario e Marcello nel loro testo del 14 maggio, Xeniteia. Contemplazione e combattimento, quando danno l’indicazione di “metterci, quasi come discepoli, sull’onda lunga di quel monachesimo che nei secoli si è fatto straniero al mondo così com’era, e non semplicemente per rifiutarlo, ma per combatterlo. Nessuna suggestione della fuga mundi, non un meccanismo di difesa, piuttosto l’apertura di un nuovo fronte di attacco.” Se ci è permessa una chiosa a questo riguardo, vorremmo osservare che l’esperienza storica del grande sconfitto del Novecento, il Movimento Operaio organizzato, ci ha insegnato che per combatterlo davvero il mondo, bisogna averlo compreso in tutte le sue stratificazioni di potere; uno dei motivi non secondari della sconfitta definitiva di quel grande soggetto storico è probabilmente da rintracciare nella insufficiente capacità di penetrazione del suo sguardo, nel macroscopico deficit di una teoria limitata sostanzialmente alla dimensione sociale ed economica del mondo del capitale. A nostro parere per poter riaprire un “nuovo fronte di attacco” sarà necessario un lungo lavoro di “analisi trascendentale” e perfino di “analisi eidetica”, per usare la terminologia fenomenologica, che intenzionalmente porti alla luce i diversi livelli di stratificazione della “costituzione del mondo” che ci troviamo di fronte, una radicale fenomenizzazione della società del capitale che ingloba ormai i sistemi differenziati della scienza e della tecnica, della politica e della gestione della corporeità delle persone in tutti i suoi aspetti. Da questo punto di vista, “contemplazione” e “combattimento” oggi quasi si identificano: l’ultima forma di lotta che ci è rimasta è appunto quella che riguarda l’interpretazione teorica del mondo e dell’uomo, l’ultima autonomia, ne siamo convinti da molto tempo, è l’“autonomia del teoretico”, che implica una radicale epoché anche rispetto al “mondo teorico” che ha contrassegnato la nostra storia. In effetti, l’epoché, in quanto “messa tra parentesi” del mondo, è una vera e propria “istanza originaria”, un’istanza di vita che esige “dal fenomenologo” in primo luogo una radicale messa tra parentesi del proprio “io empirico”, “mondano”, “naturale” e dunque quel “in te ispsum redi” della citazione iniziale non va inteso come una fuga nell’interiorità: si deve accedere al proprio “io trascendentale” non per ritrovare una tana in cui cercare consolazione di fronte alla malvagità del mondo, ma, al contrario, per poter sottoporre a critica il nostro stesso “io mondano”, la nostra stessa storia. Nell’intima immanenza c’è una trascendenza, una radicale alterità. Anzi, in questa direzione si può rintracciare nel pensiero di Husserl una indicazione di fondo che richiede un trascendimento della stessa dimensione dell’“umano”, un “salto” che per Husserl ha il suo esito nella soggettività trascendentale, ma che per noi deve concludersi nella trascendenza: “(…) non è nell’atteggiamento naturale che si conquista questa vita costituente, che porta a validità il senso d’essere e lo ha in sé; non è nell’atteggiamento naturale, non è nel persistere continuo nell’autoappercezione <uomo>; lo si conquista solo nel salto con cui si oltrepassa il proprio se-stesso naturale, il proprio esser uomo.” (Nota a margine n. 84 alla VI° Meditazione cartesiana di E. Fink, Milano, 2009, p. 44). Si percepisce qui quasi una figurazione che si colloca nella scia dell’oltre-uomo nicciano, ma con un senso ben diverso.

“Perdere il mondo”: Husserl usa questa espressione negli anni tra le due guerre mondiali, ossia in un contesto storico in cui l’Europa, e non solo la “scienza positiva”, effettivamente ha perso il suo mondo, quel contesto della “seconda guerra dei trent’anni” in cui il sistema europeo degli Stati (nella forma dello jus publicum europaeum), che aveva dominato il mondo per tre secoli, si è inabissato nella sua stessa stasis. Una catastrofe teologico-politica: da questo punto di vista, il Novecento costituisce solo l’apocalisse negativa conclusiva in cui si dà la fine di una storia bimillenaria, quella dell’eone cristiano. In questo senso, si può concordare con un passo del testo di Mario e Marcello: “È molto dubbia la verità di questa idea ormai entrata nel senso comune, secondo cui vivremmo in tempi apocalittici. L’impressione che se ne ricava dai vari discorsi che si rincorrono nell’infosfera è quella di una certa superficialità, di un cedimento generalizzato allo «spettacolo» dell’apocalisse, non certo di una sua assunzione in senso genuinamente profetico.”

In effetti, l’apocalisse sta alle nostre spalle e ce la siamo perfino già scordata, si è verificata nella prima metà del Novecento e non ha significato solo la catastrofe dell’Europa degli Stati, ma anche l’emergere delle estreme figurazioni del messianesimo.  E tuttavia si è trattato di un’apocalisse negativa, perché in essa non si è data la “rivelazione” di alcun novum, ma solo l’implosione e lo sprofondamento immanentisco di una dinamica che aveva trovato la sua fonte duemila anni prima, in quella radicale riformulazione del messianismo ebraico costituita dal messianismo cristiano. Là si è data l’autentica novitas, poiché con il messianismo cristiano si è prodotto il superamento di quell’atteggiamento di “procrastinazione” di cui ha parlato Scholem come tipico del messianismo ebraico e si è generata una nuova forma messianica sulla base “fondamento inconcusso” del “già”: la basileia tou Theou ha già fatto irruzione nel mondo nell’evento (Ereignis) della incarnazione/morte/resurrezione del Figlio in Gesù di Nazareth, il Cristo. Solo a partire da quel “già”, da quella sorta di “accumulazione originaria” di potere teologico-politico, si è potuta scatenare quella dinamica espansiva che ha percorso tutta l’Europa della tarda Antichità e del Medioevo e che infine è sfociata nella grande rivoluzione spaziale dell’apertura degli oceani, della scoperta del Nuovo Mondo e della costituzione del primo ordinamento spaziale globale, lo schmittiano Nomos della terra.

Allora, tutta la vicenda della modernità, colta nella sua struttura profonda, può essere letta come immanentizzazione del messianesimo, come autoaffermazione dell’umano, rovesciamento dell’incarnazione di Dio nella divinizzazione dell’uomo e il Novecento come compimento di quella dinamica bimillenaria, come implosione dello jus publicum europaeum e come trionfo delle ultime incarnazioni dello Spirito messianico, gli USA e l’URSS: tutta la seconda metà del secolo può essere dunque letta come una Weltbürgerkrieg tra queste ultime potenze messianiche. Da questo punto di vista si può concordare pienamente con Mario e Marcello quando sottolineano come “Walter Benjamin affermò senza giri di parole che la società senza classi, predicata dal comunismo moderno, non era che una secolarizzazione del regno messianico. In questo senso, dovremmo forse completare la famosa sentenza schmittiana che afferma che «tutti i concetti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», con quella di «tutti i concetti della dottrina rivoluzionaria sono concetti teologici secolarizzati».”

Tuttavia, non si può fare a meno di osservare che una dimensione messianica ha caratterizzato non solo il paese de L’esperimento profano (il riferimento, naturalmente, è all’ottimo libro di Rita di Leo sull’URSS), ma anche il suo antagonista: da un lato il “regno della giustizia”, dall’altro il “regno della sovrabbondanza e della libertà (liberaldemocratica)”. In ogni caso, dopo il 1989, viviamo in un’epoca post-messianica, in cui anche la pretesa dei vincitori della guerra globale endomessianica di ergersi a “giudice universale” si è rivelata del tutto vana: il compimento del messianismo lascia in eredità un mondo in cui la coppia concettuale “ordinamento e localizzazione” non ha più alcun luogo.  E dunque, a che può giovare riattualizzare, in questo drammatico contesto, un’ennesima versione del “pensiero debole”, quella della benjaminiana “debole forza messianica” del comunismo?

Con questa catastrofe teologico-politica, la radicale immanentizzazione del messianesimo e il suo compimento in essa, si devono fare i conti fino in fondo, almeno sul piano teorico, perché il mondo che possiamo “contemplare” ne è il frutto. Ne consegue, a nostro parere, che non è possibile interpretare il presente semplicemente come “un passaggio epocale”: ciò di fronte a cui ci troviamo, per ispirarci a un tema di Carl Schmitt, è la “fine dell’eone messianico”, un percorso temporale bimillenario su cui si è costituito e infine si è infranto il mondo ad egemonia europea prima, nordamericana poi.

Da questo punto di vita è davvero impressionante scoprire come uno sguardo prospettico analogo, anche se in una dimensione molto diversa, sia rinvenibile in quella VI° Meditazione cartesiana, scritta da Eugen Fink sotto la supervisione di Husserl: “L’<eone> dell’esser-fuori-di-sé della soggettività trascendentale è alla fine, alla storia della sua <anonimia> si pone la parola fine tramite la riduzione fenomenologica, ed esso fa il suo ingresso nell’epoca del processo trascendentale del venire-a-sé.” (cit., p. 132). Non a caso il primo capitolo della Krisis recita: La crisi delle scienze quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea. Naturalmente, non si vuole in alcun modo con ciò aderire alla fede per cui la nascita in campo filosofico della fenomenologia avrebbe segnato una svolta eonica nella storia non tanto dell’umanità, quanto della soggettività trascendentale e quindi dell’assoluto stesso. Si vuole solo segnalare il fatto sintomatico per cui, negli stessi anni in cui Schmitt diagnostica la fine dell’eone cristiano, in un altro ambito delle scienze umane emerge lo stesso punto di vista prospettico. A questo proposito, ci sembra molto rilevante l’accenno di Fabio Milana, nelle ultime righe del suo Lontano da dove, pubblicato in xeniteia l’8 luglio, a un “passaggio di storia sacra” che egli legge sulla base del tema, sviluppato a suo tempo da Sergio Quinzio, della “sconfitta di Dio”. In realtà, è l’intera conclusione del testo di Fabio che impressiona, al punto che riteniamo valga la pena di riportarla per intero:

“Se a mia volta ritorno sul motivo del peccato, non è solo per le ragioni già accennate.  Ma è perché il male è troppo grande e troppo incombente. Che sia ormai da imputare in misura prevalente e quasi esclusiva ad anonime <strutture di peccato>, più che a questo o quel soggetto, dice solo che nessuno può <chiamarsi fuori>, nessuno è <innocente>: tutti abbiamo concorso e concorriamo nel dismettere la responsabilità comune per la libertà che ci è stata rivelata.  È ancora possibile <estraniarsi>? Si può dubitarne. Quale <ascesi> conviene praticare? La domanda resta aperta. In questa congiunzione, ormai senza alternative e perciò senza più speranza, di <mondanità> e <modernità> – temo si debba constatare un passaggio di storia sacra, qualcosa come la sconfitta di Dio. Solo per questo è, la nostra, <l’epoca più pienamente cristiana che ci sia mai stata>. Ci è dato contemplare l’impotenza di Dio. E insieme, ostinatamente, attendere la resurrezione dei morti. Quei morti siamo noi stessi.”

In particolare queste ultime parole suscitano in noi un sentimento di consonanza, anche se, certamente, in una direzione diversa da quella espressa da Milana: per noi si tratta del sentimento della morte politica, della chiara consapevolezza dell’impraticabilità dell’agire politico, se non sul terreno della ricerca teorica, per cercare almeno di ridare alla politica il suo statuto di conflittualità e di autorità e riconsegnarle una dimensione da “grandi spazi” . E del resto quale sentimento può essere più naturale per chi vive in un continente politicamente morto da più di settant’anni? Di fronte a un quadro così drammatico, non possiamo che dismettere ogni tono assertorio e limitarci a una domanda, a un interrogativo che si impone per chi come noi legge la storia degli ultimi due millenni alla luce della categoria di “compimento del messianesimo”, cioè della redenzione. Ci chiediamo cioè se l’apparente “impotenza di Dio” non sia tanto da attribuire a una presunta “sconfitta di Dio”, cioè alla radicale immanentizzazione della redenzione nell’autoaffermazione dell’umano, quanto piuttosto rappresenti una decisione originaria del dio creatore, ossia la decisione di affidare la creazione alla responsabilità delle creature. Nel silenzio di dio si dovrebbe allora leggere un appello all’ascolto e alla ricerca di ciò che nella creazione e nella storia dell’uomo costituisce traccia del creatore, senza bisogno di credere a un “Dio della storia” che dalla storia dell’uomo sarebbe stato sconfitto. Da questo punto di vista ci sembra molto significativo un passo tratto da uno dei manoscritti che costituiscono il Nachlass di Husserl, in cui costantemente insiste sulla profonda struttura finalistica che è sottesa all’esistere umano: “La teleologia ci porta a riconoscere che Dio parla in noi, che Dio parla nell’evidenza delle decisioni che, attraverso tutti gli aspetti del mondo finito, indicano l’infinito.” In questo caso accanto alla diade “contemplazione e combattimento”, emergerebbe una vecchia coppia concettuale di origine weberiana, quella di vocazione e responsabilità, inserita però nell’orizzonte di una chiara decisione teista: il senso dell’esistenza consisterebbe allora nella risposta a una chiamata dall’alto, ad una vera e propria Berufung.

Questa che ipotizziamo qui potrebbe apparire come una riedizione della vecchia concezione deista. In realtà, noi riteniamo che l’eone cristiano non sia passato invano e che, al contrario, abbia depositato nel suo compimento una eredità teologica preziosa, secondo la quale dio non è un’unità indifferenziata, ma una relazione interpersonale avente un grado di intensità di cui non è possibile pensare il maggiore. Allora, l’“immagine” creaturale del creatore non potrebbe essere rappresentata dal singolo individuo, ma dalla relazione interpersonale, nelle sue diverse stratificazioni. In tal modo, si potrebbe istituire, anche su un piano teologico politico, una profonda corrispondenza tra la tradizione teologica del trinitarismo cristiano e quella fenomenologia dell’intersoggettività che ha attraversato tutto il Novecento.

 

 

*Epimeteo è il nome che si è dato un gruppo di ricercatori che si occupano da alcuni anni specificamente di “teologia politica” e “realismo politico”. Hanno un sito web: www.epimeteo.org